LibertàEguale

Riformismo, la coazione a ripetere dei dem

di Vittorio Ferla

 

Il Partito Democratico aveva cominciato la campagna elettorale con un importante vantaggio: quello di presentarsi come il pilastro del governo Draghi. Sia sul fronte economico, con l’attuazione del poderoso pacchetto di riforme previste dal Piano nazionale di ripresa e resilienza frutto degli investimenti (e della scommessa) dell’Unione europea sulla ripartenza dell’Italia. Sia sul fronte geopolitico, con il sostegno al posizionamento atlantista e occidentale di Draghi che vede nell’Ucraina un paese da difendere contro l’aggressione ingiustificata della Russia e da integrare nella famiglia delle democrazie europee. Un vantaggio importante fino al punto di permettere al segretario Enrico Letta di rompere l’alleanza con il M5s – responsabile di aver sabotato l’ultimo tratto di strada dell’esecutivo di unità nazionale – a dispetto della linea fin qui sostenuta dalla maggioranza del partito uscita vincitrice dalle primarie del 2019. Com’è noto, l’eletto fu, allora, Nicola Zingaretti, poi dimessosi a due anni esatti di distanza, quando la linea del ‘campo largo’ tra Pd e M5s subì il primo colpo a causa della caduta del governo Conte e, soprattutto, dell’incarico a Mario Draghi. Enrico Letta ha saputo sfruttare l’opportunità offerta dall’incarico all’ex capo della Bce, coinvolgendo con abilità le oligarchie del suo partito a sostegno di una politica della responsabilità che ha garantito la tenuta e, addirittura, la ripresa del paese.

Nel giro di poche settimane agostane, tuttavia, questo vantaggio sembra già bruciato. Il Partito Democratico sta per presentarsi alle elezioni di settembre con un format, già tristemente noto, che ricorda parecchio l’Italia Bene Comune delle elezioni del 2013. Allora, il segretario era Pierluigi Bersani: aveva appena vinto le primarie del 2012, respingendo il primo assalto di Matteo Renzi. Bersani mise in campo una coalizione che aveva il Pd al centro e poteva poi contare su Sinistra Ecologia e Libertà di Vendola, il Psi di Nencini e il Centro Democratico di Tabacci. Uno schema che ricorda in modo impressionante l’assetto di oggi, con alleati in parte equivalenti: Sinistra italiana ed Europa Verde eredi di Sel, +Europa invece del Psi, il Centro Democratico sempre in corsa, stavolta portando in dote il ministro degli esteri Di Maio.

Forti assonanze anche nel programma. Se quello di Italia Bene Comune era il classico concentrato di luoghi comuni della sinistra, qualcosa di molto simile si ritrova oggi nella lista di misure fondate sull’aumento forsennato della spesa pubblica: dall’aumento degli stipendi netti dei lavoratori dipendenti alle decine di interventi per il Sud fino al bonus per i diciottenni. Il documento di programma propone un “Piano nazionale” praticamente per tutto, e di conseguenza il corrispondente “Fondo nazionale” che è la borsa da cui bisognerà attingere le risorse. Come dieci anni fa con Bersani, anche oggi si assiste pertanto alla stanca riproposizione di una promessa vagamente socialdemocratica, ma fuori tempo massimo. Con l’aggravante che, fino a pochi giorni fa, l’accordo con Carlo Calenda prevedeva tutt’altra impostazione. E l’Agenda Draghi come stella polare. Come può un partito con questa storia – e che si candida alla guida del paese – cambiare radicalmente attitudine e programma nel giro di una settimana, praticamente sulla base di un turn over dell’alleanza? Esiste o no una sostanza culturale e programmatica di fondo capace di definire il perimetro della sua azione concreta?

Sempre dieci anni fa la regressione a sinistra della segreteria Bersani favorì la nascita di Scelta Civica, una formazione che raccolse un mix di fuoriusciti del Pd, di centristi e di liberaldemocratici ispirati all’azione del governo Monti. Si parlò allora di Agenda Monti così come oggi si parla di Agenda Draghi. E, come allora, è nato di fatto un Terzo Polo che ha fatto propria l’esperienza di governo recente, occupando lo spazio lasciato scoperto dal Pd. Con due differenze non banali. La prima: il governo Monti fu chiamato a compiere interventi dolorosi, necessari e spesso impopolari (basti pensare alla riforma delle pensioni), mentre il governo Draghi ha potuto godere degli investimenti politici e finanziari generati dal Next Generation Eu. La seconda differenza: diversamente da Monti, Mario Draghi ha evitato di farsi travolgere personalmente nel confronto elettorale, né ha patrocinato le liste nate nel suo nome. Resta il fatto che pure il Terzo Polo – come Scelta civica allora – nasce per l’opera di leader, quadri e militanti che provengono in larga parte dal Partito Democratico e che lì, a un certo punto, si sono sentiti fuori posto o esplicitamente respinti. Non deve stupire, pertanto, che, nel Pd, si ripetano quelle pratiche di esclusione dei candidati riformisti (la gran parte dei quali legati al tempo della segreteria di Matteo Renzi) che già aveva realizzato a suo tempo Bersani, quando diede il benservito agli interpreti più autentici del progetto del Lingotto dell’ex segretario Walter Veltroni.

Sappiamo come finì nel 2013. Bersani ottenne una non-vittoria e si dimise. E la stessa Scelta civica nell’arco della legislatura perse i pezzi fino a sciogliersi. Non sappiamo dire come finirà questa volta. Per fortuna, la storia non si ripete mai eguale.

E tuttavia le somiglianze fin qui raccolte, a ben dieci anni di distanza, devono fare parecchio riflettere sulla mancata evoluzione riformista del Partito Democratico. Il problema è, prima di tutto, culturale. Il Pd nasce come luogo di sintesi di diverse tradizioni progressiste: post-comunisti, socialisti, cattolici democratici, repubblicani, ecologisti. La contaminazione tra questi diversi filoni avrebbe dovuto risolversi nell’orizzonte della sinistra liberale, capace di superare gli steccati novecenteschi per costruire un solido e moderno riformismo liberaldemocratico. Sulla base di questa evoluzione il Pd avrebbe dovuto esercitare una vocazione maggioritaria sull’intero centrosinistra. Questa trasformazione culturale non si è realizzata e le conseguenze si ripercuotono anche sulle biografie personali e di gruppo. Non a caso, quelli che si sono allontanati avendo perso la fiducia nell’evoluzione del Pd – e oggi si dedicano alla costruzione del Terzo Polo – sostengono che il partito non sia realmente ‘contendibile’. Costoro hanno non poche ragioni. Puoi anche occasionalmente conquistare il vertice del partito – sostengono – con un leader riformista (Veltroni, Renzi), ma prima o poi la ‘Ditta’ reagirà per disarcionarlo e per riconquistare il controllo del partito, riportandolo alla sua ‘diversità’ ontologica e alla sua arcadia novecentesca. Allo stesso tempo, c’è da chiedersi se la strategia di creare una ridotta del riformismo, piccola ma combattiva, agile ed efficace ma minoritaria (con il rischio di diventare settaria) possa rappresentare la soluzione del problema. E così le elezioni del 25 settembre scriveranno un capitolo nuovo. Ma della solita storia.

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