Intervista a Enrico Morando a cura di Umberto De Giovannangeli pubblicata il 24 novembre 2024 su l’Unità
Enrico Morando, leader dell’area liberal del Partito democratico, tra i fondatori dell’associazione di cultura politica Libertà Eguale, già viceministro dell’Economia e delle Finanze nei governi Renzi e Gentiloni: l’Emilia-Romagna si conferma al centrosinistra. Il “campo largo” riconquista l’Umbria. Un segnale nazionale?
Si votava per scegliere due Presidenti di regione. Noi di centro-sinistra avevamo candidati migliori e – in Emilia-Romagna – potevamo vantare performance del governo regionale da record, in molti campi; mentre il centro-destra, in Umbria, presentava un rendiconto deficitario. Per capire perché abbiamo vinto, sarebbe bene partire da qui. Hanno vinto due amministratori locali, due sindaci che gli elettori hanno potuto apprezzare per la loro concretezza, per la capacità di compiere scelte difficili, per la nettezza con cui hanno preso posizione su temi controversi, come ha fatto De Pascale sul superamento del reato dell’abuso d’ufficio e sui rigassificatori. Detto questo, le elezioni regionali di quest’ultima fase segnalano – anche dove noi abbiamo perso – due tendenze piuttosto chiare: la “spinta propulsiva” del centro-destra (e della stessa Meloni) tende ad affievolirsi, malgrado questo schieramento si sia dato una struttura politicamente assai solida: un partito a vocazione maggioritaria (FdI) che assicura alla coalizione la leadership, l’indirizzo politico-programmatico prevalente e gran parte del consenso elettorale; e due partiti junior partner, “liberi” di condurre qualche campagna identitaria, a patto di non sgarrare al momento delle scelte di governo. La seconda tendenza è ancora più netta: nel cosiddetto campo largo, l’unico partito potenzialmente in grado di esercitare la funzione di perno della coalizione è il Pd. Non è frutto di un’astratta pretesa di egemonia. È ciò che gli elettori vengono progressivamente decidendo, di elezione in elezione. Entrambe queste tendenze propongono, per il centro-sinistra, l’esigenza di parlare meno di rapporti tra i partiti, riconoscendo invece centralità – specie per il Partito democratico – al tema della costruzione di una credibile proposta di governo.
Il crollo dei votanti. È crisi di sistema?
Al gran numero di cittadini che non va ai seggi si sommano orientamenti e realtà diverse. Una minoranza – variabile per dimensioni – lo fa per “protesta”, quasi che la sua scelta potesse suonare come una punizione per i partiti (e le persone) impegnati nella competizione. È quella che mi preoccupa di meno: se “protestano” è perché seguono il conflitto politico e pensano (sbagliando, ma tant’è…) di poterlo influenzare. Domani, potrebbero cambiare strumento, e tornare a votare. Altri, più numerosi, si astengono perché pensano che il loro voto non conti nulla. È l’area dell’astensionismo più vasta e più difficile da smuovere. Qui, un confronto politico meno “urlato” e più ancorato alle scelte che influenzano la vita quotidiana può servire. E potrebbe avere un peso rilevante l’effettiva apertura democratica delle procedure di scelta dei candidati alle cariche monocratiche o nei collegi uninominali. Ho letto una dichiarazione di Nancy Pelosi che rifletteva autocriticamente sul fatto di non aver scelto il candidato democratico con le primarie. Considero quindi un gravissimo errore la scelta del Pd – non in via di diritto, ma in via di fatto – di cancellare le primarie dalla concreta vita democratica del partito. Malgrado lo Statuto prescriva il contrario, il ricorso alle primarie per la scelta dei candidati sindaci e presidenti di regione è un evento assolutamente straordinario. Proprio mentre un gran numero di cittadini considerano i partiti organizzazioni in mano a ristrette élite autoreferenziali, noi non usiamo lo strumento che dimostrerebbe loro il contrario…
Il Pd è il primo partito in Emilia-Romagna e in Umbria. Un successo della “linea Schlein”?
Il successo del Pd è, per definizione, anche il successo di Schlein, che lo guida sulla base del risultato dell’ultimo congresso. Quanto alla “linea”, ho appena detto: a me sembra che i risultati elettorali, dalle Europee alle Regionali, confermino che c’è bisogno di rilanciare – senza alcuna iattanza, ma con tranquilla determinazione – la linea del Pd come partito a vocazione maggioritaria, perno di un’alleanza tra partiti diversi, capace di garantire alla coalizione la leadership, la sostanza del programma, la gran parte del consenso elettorale. Per svolgere questa funzione con efficacia, bisogna che il Pd non sia “la sinistra” che si allea con uno o più partiti di “centro”, ma sia esso stesso “centrosinistra”, assumendo sia la rappresentanza delle forze del “merito”, sia quella delle forze del “bisogno”. È un’operazione più legata al profilo ideale e programmatico che alle alleanze politiche (che pure ci vogliono e verranno). Non è questione di essere più o meno radicali: non sono questi i tempi per un generico moderatismo. Al contrario, è questione di aggredire le resistenze conservatrici, anche mettendo in discussione vecchie certezze, con soluzioni innovative e realistiche dei problemi che i lavoratori e cittadini avvertono come tali. Un esempio per dare l’idea: gran parte della popolazione prova sulla sua pelle le conseguenze del mancato governo dell’immigrazione. Il governo Meloni non ha una risposta seria per questo crescente disagio sociale, ma si mostra consapevole del problema e, non sapendo come risolverlo, si inventa la “soluzione albanese”. Propaganda allo stato puro. Giusto dunque etichettarla come tale. Ma qual è la soluzione che il centro-sinistra propone? In primo luogo, alla dimensione europea? Se si capisce solo che noi siamo per “l’inclusione”, ma non siamo in grado di declinarla in realistici atti di governo (nazionale ed europeo), la propaganda della destra ha facilmente la meglio.
Programma e alleanze. Un binomio inscindibile o, pur di allargarsi, si può anche sacrificare un po’ del primo?
Oggi, nel mondo, le forze di sinistra e di centro-sinistra sono avvertite come autoreferenziali, espressione di ristrette élite, impegnate a sommare identità che estremizzano i loro caratteri – si veda il recente libro di Ricolfi Il follemente corretto (La nave di Teseo) – e, così facendo, paralizzano le stesse capacità di decidere di questi partiti. Se vogliamo tornare a vincere e a governare il cambiamento, dobbiamo occuparci meglio dei problemi fondamentali: sicurezza in un mondo fattosi molto più pericoloso, lavoro, salari, crescita economica, formazione, salute, governo dei problemi sociali connessi alla transizione ambientale e digitale. Dobbiamo tornare ad essere “popolari”, non perché facciamo quello che ci dettano i sondaggi, ma perché ci occupiamo – con la lotta politica e con l’azione di governo – dei problemi del “popolo”. Sulla base dei nostri principi fondanti, che sono la libertà e l’eguaglianza. Questo è, per noi, il “programma”: prima di essere la base per le alleanze politiche (che, lo ripeto, ci vogliono), è per noi una ragione esistenziale. È, sì…deve trattarsi di qualcosa di preciso: quale innovazione della situazione esistente, realizzata da chi, in quali tempi, con quali risorse organizzative e finanziarie. Ad esempio: non basta dire “più risorse per la sanità”. È sacrosanto. Ma se siamo vaghi sulla fonte delle risorse aggiuntive (del tipo: “maggiori entrate determinate dalla futura crescita economica”) e, ancor più, se non chiariamo dove e come vogliamo cambiare l’assetto del sistema sanitario, la nostra agitazione sulle liste d’attesa si confonderà con quella propagandistica del governo. E siccome, propaganda per propaganda, gli altri hanno ora più mezzi per arrivare al cittadino…
Il 20 gennaio 2025 si insedia alla Casa Bianca Donald Trump. L’Europa trema?
Se Trump realizzerà anche soltanto due terzi delle scelte che ha annunciato in campagna elettorale, sull’Europa si scatenerà un vero e proprio uragano (Norberto Dilmore): in tema di sicurezza, potrebbe abbandonare l’Ucraina, in cambio della “pace” alle condizioni fissate dall’imperialismo di Putin; in tema di politiche energetiche, potrebbe chiamarsi fuori da ogni accordo multilaterale; in tema di commercio mondiale, potrebbe imporre pesanti dazi doganali sulle importazioni dall’Europa e dalla Cina; sull’immigrazione, potrebbe tentare deportazioni di massa di immigrati irregolari… È vero che il combinarsi di queste scelte potrebbe rapidamente far ripartire negli Usa proprio quell’inflazione sulla quale ha fatto leva la campagna elettorale di Trump e del suo “MAGA”, ma è altrettanto vero che l’Unione Europea, da anni caratterizzata da tassi di crescita della produttività molto bassi, da un’economia trainata dalle esportazioni (Merkel docet), da garanzie di sicurezza fornite dagli Stati Uniti d’America, potrebbe non reggere l’urto dell’offensiva trumpiana e frazionarsi, in una gara suicida tra i Paesi maggiori a chi per primo tratta direttamente con la nuova Amministrazione americana. La minaccia è dunque gravissima. E i tempi per organizzare un’efficace reazione sono davvero stretti. Due ragioni per nutrire qualche speranza, per la verità, ci sarebbero…
Quali?
Il processo di integrazione ha fatto salti soltanto quando incombevano crisi profonde (anni e anni a discutere di Eurobond, senza cavare un ragno dal buco: poi, in pochi mesi, sotto la minaccia del Covid, si approva il programma Next Generation EU, finanziato da titoli di debito europei emessi sul merito di credito dell’Unione). In secondo luogo, ora l’Unione dispone di un piano: i rapporti di Draghi e Letta esattamente questo sono. C’è, dunque, l’occasione (sia pure sotto forma di rischio) per rilanciare il progetto di integrazione, e c’è un disegno realistico e visionario a cui ispirare questo sforzo. Ma c’è la leadership politica necessaria? Per ora, le risposte offerte dalla politica europea non inducono alla fiducia: il lungo documento del vertice di Budapest non contiene impegni precisi (con l’eccezione di quello per il mercato unico dei capitali), mentre la preparazione del voto di conferma sulla Commissione è stata utilizzata – da parte di tutti gli attori fondamentali – come un’occasione per regolare i conti “interni” ad ogni singola nazione. Alla fine, ci sarà un voto che obbedirà a questa logica. E all’esigenza di far prevalere il “senso di responsabilità”: i popolari voteranno anche Ribera e i socialisti e democratici voteranno anche per Fitto. Ma resterà senza risposta la domanda che conta: questa Commissione è all’altezza della sfida che abbiamo di fronte?