di Alessandro Maran
E’ possibile oppure no un governo tra populisti e sinistra? Anche con chi è nemico della democrazia rappresentativa? E un accordo Pd-M5s sarebbe un dramma o un’opportunità?
Per Filippo Turati, la rivoluzione era prima di ogni altra cosa, un costrutto culturale basato sulla contrapposizione tra le forze del bene e quelle del male. In altre parole, nell’universo culturale dei rivoluzionari, gli “altri” hanno sempre interessi meschini e sono un’unica e indistinta massa reazionaria da schiacciare.
A ben guardare, siamo sempre lì. I rivoluzionari si considerano, oggi come allora, antropologicamente diversi dai riformisti: ritengono di essere un “tipo umano” mai esistito prima e destinato a traghettare l’umanità verso la fine della storia. E “quando si sbandiera la propria onestà – aggiungeva sarcastico Turati – bisogna abbottonarsi la giacca e proteggere il portafoglio”.
Nei Cinque stelle troviamo tutti gli ingredienti tipici di quella tradizione culturale: l’Italia e il mondo intero sono governati da un sistema sociale e politico catastrofico; viviamo in una società totalitaria in cui i mezzi di informazione manipolano le menti delle persone, ecc. Insomma, il peccato pervade il mondo e a un gruppo di pochi eletti spetta il compito di purificarlo.
Se prendiamo i grillini sul serio, dall’incontro tra M5s e Pd non può venire niente di buono. Con Renzi il Pd ha cercato di “dimenticare Berlinguer”, provando a uscire in modo definitivo da quella tradizione liquidando definitivamente il vecchio mito della “crisi ineluttabile” del capitalismo e una sinistra che ha trovato nella denuncia morale un comodo surrogato dell’iniziativa politica. Ripiombarci significherebbe sancire la sconfitta definitiva dei riformisti, l’impossibilità per la sinistra italiana di emanciparsi dal lascito di Berlinguer.
Come hanno messo in evidenza Paggi e D’Angelillo già negli anni 80, il Pci non è mai riuscito a passare dall’arte di “salvare l’Italia” a quella di governare in condizioni di normalità. Ma il Pd non deve “salvare” l’Italia, deve fare le riforme.
Il risultato del referendum ci costringe ancora dentro al vecchio recinto. Ma bisogna ripartire da li, provando anzitutto a rilanciare la riforma istituzionale per introdurre anche in Italia il semipresidenzialismo alla francese. Anche perché l’Italia non uscirà dalla crisi finché quel 60 per cento che il 4 dicembre ha votato No non capirà di avere sbagliato.
Articolo pubblicato su Il Foglio, 1 maggio 2018