di Claudia Mancina
Ricostruire significa in primo luogo ripensare. La cultura politica e l’organizzazione.
L’organizzazione
Sull’organizzazione Calise ha scritto cose chiarissime e indiscutibili che sottoscrivo. Da troppo tempo (ben prima della segreteria di Renzi) il Pd si è abbandonato a una deriva disgregativa che non si può giustificare con l’argomento che i partiti novecenteschi sono finiti. Questo è vero, ma allora bisogna mettere in campo una nuova forma organizzativa, che usi sino in fondo e in modo politico le nuove tecnologie. Non bastano i tweet. Non possiamo pensare che il partito di oggi sia un’entità che a livello nazionale produce solo dichiarazioni e annunci, mentre a livello locale produce sistemi di potere, più o meno corrotti o corruttibili secondo i casi.
La cultura politica
Ma non meno importante, forse di più, è la cultura politica. Grande buco nero del Pd dalla sua nascita, ma dovremmo dire della sinistra italiana. Una sinistra che è passata attraverso svolte anche estremamente significative, come la fine del Pci, la costruzione dell’Ulivo, la delineazione di una prospettiva di centro sinistra, senza mai fare bilanci o rivisitazioni. Neanche di un’esperienza così particolare come quella comunista. Neanche del berlinguerismo. E non parliamo dell’esperienza socialista. Oggi ci troviamo di fronte a un evento come le due gravi sconfitte del 16 e del 18 senza strumenti per riflettere. E senza classe dirigente. Del resto come potrebbero formarsi dirigenti in una simile carenza di organizzazione e di cultura politica? Il Pd è praticamente ammutolito; altro intorno a lui non sembra crescere.
Fare un bilancio
La nostra associazione può svolgere un ruolo essenziale, come ha sempre fatto, per contribuire a una riflessione di ampio respiro. Anche noi però dobbiamo avere il coraggio di fare un po’ di conti. Non mi piace usare la parola autocritica che ha un’eco staliniana. Vogliamo dire bilancio? Credo che un arretramento così vistoso richieda una spiegazione, o meglio diversi tentativi di spiegazione da confrontare tra di loro. Nessuno può pensare di avere la verità in tasca, ma nessuno può sottrarsi al bilancio. E mi riferisco anche a Renzi: mi dispiace non avere ancora sentito da parte sua uno sforzo di interpretazione politica della sconfitta.
Il riflesso del ritorno indietro
In molti si sta affermando il riflesso del ritorno indietro. Cancellare il renzismo, cancellare le riforme fatte in questi anni. E’ un riflesso forse inevitabile; il problema è che, in mancanza di una efficace alternativa di analisi e di progetto, quel riflesso prevarrà. Il nostro contributo può essere quello di ripensare, ma senza tornare indietro. Per non tornare indietro, però, non basta stare fermi: bisogna andare avanti.
Andare avanti significa aggiornare e approfondire le nostre analisi e le nostre proposte per tenere conto di ciò che è avvenuto. Se facciamo politica, e non accademia, non possiamo non chiederci qual è il modo più efficace per contrastare le tendenze nazionalpopuliste che si stanno affermando in Europa e non solo. Non credo che basti ripetere le cose pur giuste che abbiamo sostenuto finora.
L’Europa è in crisi esistenziale
Per es. l’Europa. Certo che siamo per l’Europa e per la costruzione di una sovranità europea, ma abbiamo la responsabilità di convincere i nostri concittadini che l’Europa è precisamente nell’interesse nazionale italiano. E credo che dobbiamo rendere più realistici i nostri progetti, concentrare la nuova sovranità europea su alcune questioni e non pensare di fare gli Stati uniti d’Europa. Ci arriveremo, ma ci vorrà tempo. Gli stati nazionali sono ben lontani dall’aver perso le loro ragioni di esistere. Un demos europeo deve ancora essere costruito, e questo significa che una compiuta costruzione sovranazionale non è oggi possibile. Penso che il doppio binario, indicato per esempio da Fabbrini, sia la soluzione più adeguata alla situazione attuale. In questo momento l’Europa è in piena crisi esistenziale, e io non credo che questo derivi da problemi di governance, credo piuttosto che sia il contrario.
La crisi esistenziale ha le sue ragioni più profonde nei mutamenti geopolitici che stiamo vivendo. La vera domanda è: ci può essere Europa fuori dalla tutela degli Stati Uniti? E’ questo che bisogna riuscire a costruire: un’Europa capace di stare in piedi da sola. Come non è mai stata.
Credo che anche il rigurgito identitario dipenda da questa crisi esistenziale. Lo vediamo nel Regno unito, nei paesi scandinavi, perfino in Germania. La questione dell’immigrazione, per certi aspetti paradossale, si spiega così: paura di perdere l’identità. C’è anche qualcosa di positivo, se l’identità non è vissuta in termini nazionalistici ma in termini culturali e costituzionali. Dovremmo riuscire a far passare un’accezione di questo tipo dell’identità, nazionale ed europea, senza demonizzarne il bisogno, senza demonizzare la paura. Se vogliamo cambiare l’agenda dobbiamo cambiare il discorso. Se vogliamo cambiare il discorso, senza nulla cedere ai populismi, dobbiamo prendere sul serio le emozioni che stanno dietro al voto per i populisti e che sono da loro cinicamente sfruttate. La politica non è solo ragione, la politica ha anche una dimensione emozionale che va riconosciuta per cambiarne la direzione.
Una sintesi tra sviluppo e protezione
Quindi, se l’alternativa è tra Blair e Corbyn, certo che siamo con Blair. Ci corre però l’obbligo, se vogliamo fare politica, di capire che cosa è successo, come mai il blairismo si è dissolto e come mai il New Labour si è consegnato nelle mani di un veterosocialista che mai si sarebbe immaginato di diventare segretario. Come siamo passati dal trionfo europeo (e anche americano) del centro sinistra all’affermazione dei nazionalpopulismi? Che ne è stato del socialismo liberale? Io non ho una risposta compiuta, ma vorrei che se ne discutesse. Certo, la globalizzazione, i suoi effetti imprevisti sui lavoratori dell’Occidente. Siamo stati troppo ottimisti, forse. L’ottimismo è una buona cosa, soprattutto in un paese vittimista come il nostro. Ma va considerato il suo impatto su aree e ceti sociali che si sentono, a torto o a ragione, marginalizzati. Bisogna curvare il discorso in modo che prenda anche loro.
La politica riformatrice, più di altre, deve superare la prova dell’efficacia. Ciò significa che la valorizzazione dei ceti produttivi e delle linee di sviluppo del paese, che noi abbiamo perseguito, deve accompagnarsi alla capacità di rispondere alla domanda di protezione che le elezioni hanno manifestato. Immigrazione, sicurezza, precarietà, disuguaglianze, sono temi su quali bisogna elaborare una prospettiva politica nuova. Ci vuole una sintesi che metta insieme le ragioni dei ceti più dinamici e quelle di chi è stato più colpito dalla crisi. Solo questa scommessa può portare fuori dalla marginalità e dalla subalternità alla retorica populista.
I rischi di un bipolarismo Cinquestelle-Lega
Per venire alle questioni più immediate, penso che l’idea di disarticolare la maggioranza sia un’illusione, e che il Pd sia troppo debole per non essere subalterno in qualunque rapporto con i 5 stelle. Però non condivido la convinzione di alcuni di noi che 5 stelle e Lega siano destinati a fare coalizione. Questo è un esito possibile; ma è altrettanto possibile che si sviluppi invece un nuovo bipolarismo nel quale il movimento faccia la parte di una nuova sinistra, sostituendo di fatto il centrosinistra. Non ci sarebbe niente di strano: i 5 stelle sono dei camaleonti, ma tra le loro confuse idee ci sono molte idee che vengono dalla tradizione di una certa sinistra. Non la sinistra riformista e di governo, ma quella sinistra massimalista che c’è sempre stata e c’è ancora. L’antipolitica, il giustizialismo, il moralismo, l’ossessione della corruzione: vi dice niente? Sottovalutare questa possibilità sarebbe un grave errore. Possiamo contrastarla soltanto rafforzando il Pd, sia come idee sia come organizzazione. E riaffermando la centralità della politica riformatrice.
(Testo dell’intervento pronunciato nell’Assemblea nazionale di Libertà Eguale a Orvieto, 14-15 luglio 2018)