di Umberto Minopoli
Non ho mai creduto alla storia della “scissione di Renzi”. Scissione di che? Di un partito di cui, volendo, è ancora maggioranza? Si è mai vista una tale stravaganza? E si è mai visto un leader che prepara una scissione lasciando che i suoi amici ed alleati interni si sparpaglino, aderiscano ad altre piattaforme e si disperdano in più rivoli? E con il leader che dichiara, ogni giorno – mentre gli altri si organizzano e si contano – che lui non fa neppure una corrente. Cioè, il requisito minimo per una scissione. Sarebbe Renzi il più maldestro degli scissionisti. Poco credibile.
Come incredibile sarebbe l’altra ipotesi che gli si attribuisce: il partito personale. Pensare che Renzi abbia rinunciato (perché ha rinunciato lui) a guidare un partito più grande, di cui è azionista di riferimento, per farsi un partitino tutto suo, e senza neanche amici ed alleati, sarebbe la più ridicola e banale delle scissioni. E Renzi banale non è.
Non scissioni, ma nuovi soggetti
E allora? Perché Renzi si è (sinora) chiamato fuori dal congresso Pd? Provo a indovinare: Renzi non vuole, affatto, una scissione del Pd. Ma una ristrutturazione del campo dell’opposizione al governo. Non scissioni ma ingresso di nuovi soggetti, aree, energie, contenitori.
Cos’è oggi il campo dell’opposizione? Il Pd, la forza più grande, è dilaniato, confuso, poco influente. Forza Italia è in via di sparizione, cannibalizzata dalla Lega sovranista. Centrosinistra e centrodestra non esistono più. Si vanno radicalizzando e perdendo la essenziale connotazione “centrista”.
Il primo, nella sua versione più estesa (dalla Bonino a Calenda e Bersani) ristagna, tristemente, a poco più del 21%. Il suo azionista principale, il Pd, rischiano di abbracciare, per disperazione, la prospettiva suicida dell’incontro con i 5 Stelle come via d’uscita alla debolezza ed evanescenza del vecchio centrosinistra. Il centrodestra è in una condizione drogata: appare elettoralmente vincente ma segnato dal dominio sovranista, che lo consegnerebbe ad un destino estremista, antieuropeo, fuori ed avverso alla maggioranza moderata che, ancora, è guida politica in Europa.
Alla ricerca del ‘centro’
Insomma: l’opposizione si assottiglia e si radicalizza nei suoi poli. Nella geografia politica italiana viene meno il luogo del “centro”. Che non è, necessariamente, un contenitore, un partito o un gruppo di personalità. E’ un connotato che ogni formazione, coalizione o partito che compete per il governo, dovrebbe avere: si definisce, non a caso, centrosinistra o centrodestra (e non sinistra e destra i poli in competizione). Il centro è il luogo della moderazione delle aspettative, della compatibilità dei programmi, del realismo, dell’equilibrio dell’azione di governo. A cui oggi vanno aggiunte due caratteristiche (finora valori comuni in Europa, nella dialettica tra destra e sinistra) che invece stanno diventando contendibili: l’unità europea e la crescita economica come filosofia accettata dei governi.
E’ tutto questo che sta scomparendo nella dialettica e nella geografia politica italiana. Ed è a rischio in Europa. Se ho capito Renzi credo che questa lettura preoccupata della realtà prevalga su propositi di scissioni o partitini personali. Non sarebbero una risposta al problema. Lascerebbero intatte le difficoltà. E frustrerebbero, anche, aspettative ed ambizioni di un leader che, legittimamente, le nutre.
Lo scetticismo sul Pd
Renzi, credo e spero, si è tirato fuori dal congresso perché scettico sul tema del Pd come inizio e fine del discorso e perché convinto, immagino, che non è la guida del Pd che risolve il problema politico della debolezza dell’opposizione. E della perdita del “centro”. E che senza irrorare il campo delle opposizioni di nuove forze, protagonisti, realtà sociali – oggi disperse, prigioniere di vecchi steccati, disimpegnate, scettiche, scoraggiate, diffidenti, astensioniste – l’alternativa ai populisti non potrà decollare.
Invece che chiudersi nelle introverse dispute dei vecchi partiti, credo che Renzi ritenga più produttivo un paziente lavoro di scouting, di stimolo a cose nuove, a nuove energie organizzate in campo. Fuori dai vecchi perimetri ideologici, stancanti, ritualistici dell’eterna guerra civile di carta della politica italiana, a destra come a sinistra. Non si tratta di propositi astratti e clamanti. E’ la novità di queste settimane – l’esasperazione delle imprese, l’emergere di un partito del Pil, la ribellione dei “produttori” alle politiche anti crescita, la catastrofe dei giovani, il declino eversivo dei caratteri della nazione (giustizia, scuola, sanità) sotto l’accetta delle politiche populiste – che motiva la plausibilità, il realismo, la credibilità del disegno che attribuisco a Renzi: la ristrutturazione del campo dell’opposizione. Per un nuovo realismo dell’alternativa.
L’errore strategico di una classe dirigente
Ma c’è un ma: può questo disegno fare passi, acquisire forza e credibilità se il principale partito dell’opposizione si sfarina, si rintana nei vecchi schemi ideologici, espelle il riformismo che lo ha attraversato nei 5 anni di Renzi, si rimpicciolisce e si consegna ad uno dei populismi in campo? Non era detto, ha ragione Renzi, che doveva essere così. Potevano convivere il disegno più largo di Renzi e un Pd che si dedicasse, con nuovi gruppi dirigenti, a ritrovare e rinsaldare il suo ubi consistam. Non è stato così.
E questo è l’errore strategico compiuto dai dirigenti non renziani del Pd e dal nuovo patto sindacale che, regista Veltroni, con Franceschini, Gentiloni, Fassino e Zingaretti (lo strumento) guida oggi il Pd. Loro hanno preso una topica. Hanno scambiato lucciole (il disimpegno di Renzi dal congresso) per lanterne (la volontà di scissione). Non hanno capito la preoccupazione strategica di Renzi (ristrutturare il campo dell’opposizione) che andava, invece, assecondato.
E hanno fatto errori da nanismo politico: in 8 mesi di damnatio memoriae di Renzi, riavuta la guida del Pd, non sono riusciti ad affermare una narrazione propria ed alternativa; hanno impostato il congresso sulla “rottura col passato” (Zingaretti), la liquidazione di Renzi e, persino, l’autocritica dell’esperienza di governo del Pd. Sono loro che hanno sterilizzato e opacizzato la prospettiva del Pd. E lasciato trasparire l’assenza di ogni altra strategia che non sia l’incontro con i 5 Stelle.
Ristrutturare l’opposizione
Ora Renzi ha un problema: l’errore della nuova dirigenza del Pd può essere sanato o si prende atto del declino del Pd verso l’irrilevanza, la liquidazione della sua natura riformista e la consegna inerme alla Opa su di esso dei 5 Stelle? Ritornare sui suoi passi è oggi per Renzi una possibilità da considerare. Perché, forse coincide con una necessità: la “ristrutturazione dell’opposizione” forse deve cominciare dal Pd, guidarlo per trasformarlo e non lasciarlo andare alla deriva che rischia di diventare, per esso, il vestito che intende cucirgli addosso la nuova dirigenza antirenziana del partito.
(pubblicato sul Foglio il 12-12-2018)
Presidente dell’Associazione Italiana Nucleare. Ha lavorato nel Gruppo Finmeccanica e in Ansaldo nucleare. Capo della Segreteria Tecnica del Ministro delle Attività Produttive tra il 1996 e il 1999. Capo della Segreteria Tecnica del Ministro dei Trasporti dal 1999 al 2001. Consigliere del Ministro dello Sviluppo Economico per le politiche industriali tra il 2006 e il 2009.