di Giovanni Cominelli
Non ero mai stato alla Leopolda, la vecchia stazione ferroviaria fiorentina inaugurata il 12 giugno 1848 dal Granduca Leopoldo II e chiusa nel 1860, dove Matteo Renzi ha incominciato nel 2010 le sue “leopolde”. Ci sono andato ora alla n. 9 della serie, nei panni dell’osservatore professionale di cose pubbliche. Per capire il vento che tira sul sistema politico e, in particolare, sul PD, che ne è parte costitutiva.
Effetto straniante
L’impatto per me è stato decisamente straniante. Abituato alle assemblee, congressi, conferenze programmatiche, convention dei partiti tradizionali mi si è subito storto il naso. Mi sono trovato, in effetti, in mezzo ad un talk-show: giochi di luci, musiche di accompagnamento, primi piani, maxischermi, cioè l’intera coreografia da anni sperimentata sui set televisivi delle tv pubbliche e private. Lo spettacolo è gestito principalmente dai giovani e dal loro linguaggio. Di qui uno spreco di superlativi. Dagli altoparlanti fluiscono espressioni quali “siete… bellissimi”, “meravigliosi”, “emozionanti”, persino “impressionanti”, soprattutto “giovanissimi”, non manca qualche “famosissismo” o “notissimo”…
Interventi brevi, di quelli che scaldano il cuore. Il regista e conduttore è Matteo Renzi. Il titolo delle tre giornate e l’immagine centrale dell’auto Delorean sono tratti dal film di Robert Zemeckis “Back to the Future” del 1985, uno dei must della generazione renziana. Il futuro è l’asse dell’intero messaggio. Futuro che cammina già oggi in mezzo a noi sulle gambe di studenti, ricercatori, giovani sindaci o assessori, scienziati, uomini/donne di spettacolo, docenti universitari, giovani immigrati.
Gli interventi sono brevi – se si allungano, suona un gong – spesso comizianti, racconti di esperienze-clou, i cognomi della presentazione iniziale si trasformano quasi subito in nomi e nomignoli affettuosi, avvolti, spesso, da espressioni inglesi a gogo. Contano, sì, le idee, ma soprattutto la loro espressività. Importante è comunicarle brevemente, senza troppe discussioni: che ciascuno dica la sua, la sintesi non si fa lì sul posto.
I 50 tavoli istituiti per mezza mattinata hanno affrontato un ventaglio amplissimo di argomenti: dall’istruzione, all’educazione dei bambini, all’artigianato, alla politica della scienza, alla salute degli alberi, all’Europa, all’immigrazione, al benessere degli animali… Il loro scopo non è tanto raccogliere idee e farne una sintesi programmatica, quanto quello di far parlare, in un interminabile flusso di coscienza, di segnalare che si è in ascolto. Alla fine tutti i rivoli finiranno in un programma di governo, forse…
Cerco di capire
La folla è tanta ed in aumento dal primo giorno. Non so fare dei conti, si va dai 4.000 in su, tutti convenuti a spese proprie. Sono presenti tutte le generazioni dai 16/18 anni fino alla mia. I posti a sedere sono pochi; perciò ritorno allo stile-assemblea del ’68 e mi siedo per terra. Come me, molti altri. Ascolto e scruto, intercetto commenti, prendo nota del quando e del quanto degli applausi. Cerco di fendere con il pensiero la nebbia multicolore dello spettacolo e di decifrare le movenze motivazionali della platea gremita di spettatori entusiasti e ostinatamente adoranti il leader.
Cosa sta dietro le apparenze dello spettacolo sgargiante? In primo luogo, un raduno di persone decise ad assumersi responsabilità personali circa il futuro del Paese. Una responsabilità generosa, molto simile antropologicamente a quella dei meet up grillini di questi anni. L’antropologia è la stessa: l’insofferenza crescente per la paralisi decisionale del sistema politico, la voglia di fare qualcosa in qualità di cittadini. E’ il civismo politico. La differenza con il grillismo è tuttavia profonda: qui il segno è quello del fare i conti con la realtà, con la scienza, contro ogni demagogia, ogni odio, ogni vendettismo, ogni confusione tra il livello civile, quello politico, quello istituzionale. Si respira un’atmosfera laico-critica, lontana da ogni idea di onnipotenza della politica e dei leader. Con le mie categorie, lo definirei un atteggiamento liberale. Ma credo che ai numerosi ragazzi presenti, non onusti dal peso di antiche categorie, l’incasellamento teorico-politico interessi poco o nulla. Sono liberali e personalisti a loro insaputa. Sono europeisti, non perché sappiano chi era Altiero Spinelli, ma perché lavorano e studiano in giro per l’Europa. Parlano di Stati uniti d’Europa, perché, quando si muovono nei Paesi europei, si riconoscono naturalmente in un comune perimetro di civiltà insieme ai ragazzi tedeschi o inglesi o francesi che incontrano. Più che vendicarsi del Paese-matrigna che hanno alle spalle, chiuso nei propri privilegi corporativi e nell’assistenzialismo da debito pubblico, intendono semplicemente costruire un’altra Italia.
Del PD non si parla. Si parla dell'”oltre” PD
Di qui la collocazione rispetto al PD, di cui pure Matteo Renzi continua ad essere un attore fondamentale. Non ne ho sentito parlare per nulla. I sedicenti bene-informati lo attribuiscono ad una scelta tattica di Renzi. Ma alla Leopolda il PD non era nella mente e nel cuore di nessuno. Eppure molti di costoro sono iscritti, militanti e dirigenti di quel partito. Il fatto è che, visto da fuori, il suo gruppo dirigente appare come un conciliabolo di vestali avvizzite e litigiose, custodi di ceneri spente. Né potrebbe scaldare gli entusiasmi l’idea di ricostruire “la sinistra delle terrazze romane”, che pateticamente invoca il passaggio dall’Io al Noi, salvo che il Noi si riduce pur sempre alle piccole oligarchie interne, ai caminetti d’antan.
Si respirava “l’aria dell’oltre”, senza polemica e senza rancore. Come dire: con il PD oltre il PD. Donde l’idea dei Comitati civici, la cui piattaforma di valori è stata illustrata da Ivan Scalfarotto. Nella narrazione renziana, si tratta di un’esperienza del tutto nuova nella politica italiana. Occorre notare – non senza un atteggiamento di perdonanza culturale – che, abbagliato dal futuro, il giovane leader ignora o dimentica che nel passato politico-civile dell’Italia sono già sorti dei Comitati civici, che si proponevano di esercitare, rispetto alla DC, lo stesso ruolo che oggi si propongono rispetto al PD. I Comitati Civici vennero fondati, su impulso di papa Pacelli e per impegno capillare e militante dell’Azione cattolica, l’8 febbraio 1948, sotto la direzione di Luigi Gedda, per sostenere la Democrazia cristiana degasperiana, che appariva al Vaticano troppo debole e incerta nella battaglia di civiltà che si apriva con il Fronte popolare. Le analogie, si intende, finiscono qui. E d’altronde organismi del genere sono sorti negli anni ’90, tra Alleanza democratica, la Rete, i Girotondi, gli Arancioni… A quanto pare, Renzi si propone una sorta di trasfusione di sangue normanno nell’organismo del PD, estenuato da lotte intestine e da una cultura politica arretrata.
Dunque, sotto le specie profane del talk-show, sta un movimento politico. E’ ciò che ha fatto notare con lucidità Umberto Minopoli nel terzultimo intervento dal palco, in perfetta sintonia con la massa dei presenti.
Tuttavia, si deve sapere che la Leopolda nuota controcorrente. Perché, se là si è incantati dal futuro, fuori, nel Paese, gli sguardi della nuova destra nazionalista, del grillismo assistenziale veterodemocristiano, della sinistra di Zingaretti, Veltroni, D’Alema, Bersani sono rivolti al passato. Loro punto di forza è che si trovano in sintonia con gli elettori. Sì, perché gli Italiani oggi hanno paura del futuro, per le molte ragioni, che abbiamo qui più volte tematizzato. La retorica del futuro ha già impedito a Renzi di cogliere, negli anni passati, le resistenze profonde, radicate nella storia del Paese, e di consolidare un orientamento di riforme istituzionali e sociali. Non si tratta di venire a compromessi con il passato, ma di tenere gli occhi aperti sul presente: uno sguardo semplice come colombe sul futuro, uno sguardo astuto come serpenti sul presente.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.
Ciao Giovanni. Ci conosciamo da … due vite fa. Ero anche io alla Leopolda. Si possono fare critiche ma è un movinento reale e vivo, fuori dagli stereotipi. Una delle poche speranze della sinistra italiana.