di Giovanni Cominelli
Gli Italiani sono diventati razzisti? Sta tornando il razzismo? Una risposta a tali domande incrocia fatalmente lo scontro politico incessante che attraversa il Paese, la società civile e, dunque, i partiti.
I fatti: duecento aggressioni all’”altro”. Xenofobia, non razzismo
Meglio, partire da ciò che sta accadendo in questi giorni nel Paese, così che la lettura degli eventi non venga offuscata dall’uso di categorie ideologicamente sovrabbondanti e poco determinate. L’indeterminatezza, per un verso, non coglie gli eventi nel loro contesto preciso e, per l’altro verso, apre la strada alla sovradeterminazione ideologica. E questa rischia di alimentare la reazione “razzista” agli eventi, generando un effetto da “profezia che si autoadempie”. Dunque, gli eventi. In questi ultimi mesi sono accaduti circa duecento episodi di aggressione all’altro “in quanto altro”: altro per il colore della pelle, altro per nazionalità, altro per religione, altro perché ebreo… Statisticamente un’impennata. Come interpretarla?
Nessuno crede più che esistano le razze, prodotto di una costruzione intellettuale pseudoscientifica che, a partire da Gobineau, ha giustificato ogni genere di genocidi e di delitti contro l’umanità. Né, d’altronde, battono alle porte delle nostre città movimenti fascisti e nazisti, benché da sempre fioriscano gruppi di nostalgici. Nessuno crede più che gli ebrei, i neri, gli asiatici, i rom e i sinti, gli omosessuali e i disabili siano degli Untermenschen da togliere fisicamente di torno per garantire la “limpieza de sangre”, che portò la Spagna di fine Quattrocento alla cacciata di ebrei e moriscos e ai primi progrom. No, quando si spara ad un immigrato di pelle nera o lo si picchia non è più l’ideologia della razza che viene a giustificare il gesto. Anzi, ce se ne vergogna, al punto da invocare la goliardia o “la ragazzata” quale improbabile spiegazione. Non il razzismo, ma la xenofobia: semplicemente, perché é “estraneo”, “altro da noi”. Perché è uno “Xenos”, lo straniero, le métèque, che l’indimenticabile Moustaki rivendicava fieramente di essere nella sua splendida canzone del 1969. La xenofobia è il sottoprodotto reattivo del nazionalismo/sovranismo, che ha trovato i suoi campioni in Marina Le Pen, in Viktor Orban, in Matteo Salvinied altri in tutta Europa.
Il retroterra culturale: non esiste la società, ma il “popolo”
Il retroterra filosofico è che non esiste “la società”, articolata in classi, ceti, interessi, culture, bensì “il popolo”, un’unità organica di etnia, lingua, cultura, storia, nazione, dentro la quale l’individuo si deve collocare organicamente. Chiunque venga da fuori è una minaccia, è uno straniero. Questa costruzione ideologica attinge a molti materiali disseminati nella tragica storia intellettuale europea. Ha alimentato il nazionalismo romantico dell’800, a partire dai discorsi di Fichte alla nazione tedesca, i movimenti di indipendenza nazionale in Europa e nei Balcani e, si intende, il movimento nazionalista che ha portato all’entrata in guerra dell’Italia nel 1915. La tensione tra Gesellschaft (società) e Gemeinschaft (comunità) ha attraversato la cultura tedesca di fine Ottocento. La seconda fase della rivoluzione industriale, le nuove tecnologie, i consumi di massa avevano fatto saltare il nesso di “sangue” e “terra” delle società proto-industriali, proiettandole e disperdendole verso il mondo. E’ passato un secolo, alcune generazioni sono state maciullate in due conflitti mondiali. Eppure quelle di oggi sono attraversate dagli stessi dilemmi. Di globalizzazione in globalizzazione le paure della perdita di sé nel vasto mondo rinascono carsicamente. E le generazioni smarriscono, a quanto pare, la memoria.
Salvini che giura sul rosario e sul Vangelo
La novità fondamentale è che nel XX secolo l’Occidente era ancora l’epicentro della storia mondiale, ora non lo è più. Il rischio della dispersione della civiltà cristiano-liberale è diventato più realistico e più imminente. Ed è ciò che più o meno confusamente avvertiamo, non credenti, ma anche i molti “cattolici”. Tanto il 18,50% che frequenta la messa, tanto i “cristiani culturali” che non la frequentano e i cui comportamenti si discostano clamorosamente dall’etica cristiana. Di qui l’angoscia diffusa. Dalla quale origina la contraddizione di cui si alimentano finora il successo elettorale dei leader politici sopra citati: la pretesa annunciata di difendere la civiltà cristiano-liberale con argomenti e politiche illiberali, che costituiscono la negazione dei suoi valori umanistici e universalistici fondamentali. Il gesto di Salvini di agitare la corona del rosario e di sventolare il Vangelo in un comizio a forti tinte nazionaliste è il simbolo e l’incarnazione di questa insostenibile contraddizione. Hitler era stato più coerente: la religione pagana del “Reich dei mille anni” doveva sostituire quella cristiana. Salvini – che peraltro si accontenterebbe di soli trent’anni – spera, più modestamente, di piegare i cattolici italiani al suo nazionalismo identitario. Mussolini aveva mietuto più successi al riguardo, sia verso le gerarchie, sia verso il basso clero, sia verso i fedeli.
Tuttavia, si deve prendere atto che quella contraddizione non esploderà tanto presto. Proprio perché le cause risiedono nelle paure profonde e di lunga durata delle persone – dei credenti compresi – rispetto al tempo del mondo che viene avanti, del quale più nessuno sembra in grado di tenere il timone. Così, se molti prevedono che l’ombrello dello Stato-nazione potrà rovesciarsi – soprattutto se molto piccolo come quello italico – di fronte alla prima raffica di vento, resta tuttavia difficile per loro indicare una realistica alternativa politica alle paure. E perciò alla xenofobia. La predicazione retorica e l’indignazione morale non bastano, se non alimentano un approccio di ascesi intellettuale e controcorrente rispetto a ciò che accade ogni giorno. Solo ascesi intellettuale? In realtà servirebbe una buona dose di virtù teologali e, comunque, di virtù cardinali, praticate personalmente: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza. Il nazionalismo mette, infatti, in discussione la relazione con l’altro, cioè l’infrastruttura di etica pubblica che tiene insieme una società. Ora, una tale infrastruttura non si predica, si fa. All’indomani della Resistenza e agli inizi della Repubblica questa pratica veniva chiamata, riprendendo Antonio Gramsci, “riforma intellettuale e morale”.
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.