di Giovanni Cominelli
Otto milioni di alunni, 800 mila docenti, 15 milioni di genitori, quando interagiscono tra loro, producono qualche attrito e parecchi fatti, a volte incresciosi. Così, accade dei ragazzi ne bullizzino altri, rendendo loro insopportabile la vita scolastica e, talora tragicamente, la vita come tale.
Oppure, accade che a Castellammare di Stabia una docente di inglese venga picchiata dalla madre di un’alunna e che a Cesena un dirigente scolastico sia aggredito da un genitore e che a Varese un alunno accoltelli una docente… Si tratta solo dei casi più recenti, ma assai frequenti lungo tutto la Penisola.
Poi ci sono “le aggressioni legali”. I genitori si presentano sulla soglia delle scuole con l’avvocato al seguito, decisi a rivendicare il diritto del pargolo al voto 7, mentre il crudele insegnante gli ha dato solo 7 -. E poi esistono pressioni dell’ambiente circostante, non solo nelle zone a mentalità o a densità mafiose, così che l’insegnante introietta “liberamente” il “laissez faire, laissez passer” a difesa del suddetto pargolo, che risulta sempre degno di Premio Nobel…
Una seconda classe di eventi è quella dell’attività “politica” dei ragazzi nelle scuole: assemblee, gruppi di studio, occupazioni. Accade dal ’68 con una certa regolarità: un’impennata verso dicembre, un riavvio prima di Pasqua e stop. Le occupazioni sono centinaia ogni anno in tutta Italia: alcune si risolvono in una vacanza allegra, altre degenerano in vandalismi; l’ultimo caso è quello del Severi, a Milano: 70 mila euro di danni provocati da un’occupazione.
Una terza classe di eventi è rappresentata dai ragazzi che si dirigono extra moenia per partecipare a manifestazioni pubbliche, il cui oggetto è deciso dalla storia locale, nazionale e mondiale: si va dalle manifestazioni contro i femminicidi, a quelle contro il degrado edilizio degli Istituti scolastici a quelle contro Israele. Quasi sempre pacifiche, a volte meno.
Punire o non punire?
Che fare quando, nel corso di questi eventi, degli studenti fanno del male fisico o psicologico alle persone o danneggiano aule, computer, vetri, infissi, muri, auto e poliziotti? Si deve punire o no?
Che si possa decidere per il Sì non è affatto pacifico. Fa sempre capolino l’idea che punire coincida con il reprimere il dissenso. Intenzione, che viene attribuita di défault al Ministro Valditara, in quanto di destra. Ma pochi Ministri dell’Istruzione sono sfuggiti a questo sospetto.
Così, mentre ai ragazzi occupanti e manifestanti è sempre riconosciuta dall’opinione pubblica progressista la generosa intenzione di migliorare la scuola e il mondo, ai Ministri viene sempre imputata la bieca intenzione di peggiorare la scuola, perché sempre subordinati a oscuri disegni ipercapitalistici, volti a favorire le classi privilegiate e, en passant, a limitare le libertà.
Ma, poi, perché punire? I ragazzi, si sa, a volte fanno delle “ragazzate”. Non siamo stati ragazzi o no? E che ragazzi quelli del ’68!
Quando i beni pubblici non sono comuni
Quali sono i punti di questa filosofia lassista? I ragazzi sono considerati sostanzialmente non responsabili e perciò non punibili. E neppure i loro genitori sono ritenuti responsabili oggettivi. Nessuno è veramente responsabile. Sicché, se un ragazzo spacca un banco, insozza un muro, vessa un compagno, nessuno ne ha colpa. Far pagare il danno? E perché mai? Si tratta di beni pubblici, di beni di Stato, cioè di nessuno.
Questo è il senso comune diffuso, di cui non si avverte la presenza, perché è comune come l’aria che respiriamo. La mancanza di responsabilità verso i beni pubblici, i beni comuni, il Bene comune, sta alla base del senso diffuso di irresponsabilità civica tra i nostri adolescenti.
Le aule, i banchi, i muri, gli Istituti scolastici non sono come casa mia, nella quale mai mi sognerei di sfasciare un tavolo o imbrattare una parete o buttare fuori dalla finestra un materasso. La scuola non è casa mia, non è un luogo dove io cresco, mi formo, interagisco con altri, costruisco relazioni e comunità. Che la scuola diventi casa mia, questo non è, ovviamente, l’effetto di lezioni di educazione civica, ma di una mentalità, alla costruzione del quale devono dare il proprio contributo un contributo i docenti, il dirigente, il personale di servizio e i genitori e i ragazzi.
A questo punto, si può girare intorno fin che si vuole alla domanda: “si deve punire?”, ma la risposta di ogni educatore responsabile è Sì! Come nella società civile, anche a scuola la punizione ha una duplice valenza: è un risarcimento dovuto per chi ha ricevuto l’offesa e un atto di rigenerazione del Sé per chi l’ha fatta.
Non c’è dubbio che gesti di violenza e di vandalismo degli adolescenti siano assai spesso la manifestazione di disagi socio-familiari. Ma gli educatori fuggono dalle proprie responsabilità, se trasformano il disagio giovanile – che esiste dall’epoca di Caino e Abele – in un alibi per la fuga dalle proprie responsabilità educative.
Filosofia di destra, questa? A leggere i documenti di forze di sinistra e i giornali a loro collegati si direbbe di sì. Alcuni spingono il sostegno dell’alibi fino ad affermare che “se il Paese non è messo bene, anche la Scuola è nelle stesse condizioni”. Non sono sfiorati dal sospetto che sia assai più esplicativo dello stato attuale del Paese il rovesciamento del nesso causale: “se la Scuola non è messa bene, anche il Paese è nelle stesse condizioni”.
Chi deve punire?
Il DdL n. 905, in discussione al Senato, si ingegna a definire tipologia e durata delle pene. Propone di aumentarle dall’attuale condanna a 5 anni per aggressione a 7 anni e mezzo, e da 3 a 4 anni e mezzo per oltraggio a studenti e familiari che aggrediscano il personale scolastico. Sul modello del Ministero della Sanità, prevede l’istituzione di un Osservatorio nazionale (il miliardesimo!) sulla sicurezza del personale scolastico e, anche, di una Giornata nazionale di educazione e prevenzione contro la violenza nei confronti del personale scolastico, da celebrarsi il 15 dicembre di ogni anno…
Che i ragazzi e i loro genitori facciano concretamente i conti con il Codice penale, che si abituino a pensare che la scuola fa parte della società civile e dello Stato, che le regole e le leggi non sono superfetazioni burocratiche cervellotiche, ma concreta difesa delle persone dalla violenza di altre persone, che non esistono “impunibili”, tutto ciò è profondamente educativo.
Tuttavia è molto alto il rischio che il DdL n. 905 si riduca ad una trovata simbolico-elettorale, ad una “grida” spagnola. Infatti, è un lavoro educativo di Sisifo quelle delle scuole, se la Famiglia è assente dal campo della sfida: “se la Famiglia non è messa bene, anche la Scuola e il Paese sono nelle stesse condizioni”. Probabilmente sono proprio le famiglie il soggetto meno attivo dal punto di vista dell’assunzione delle responsabilità educative nei confronti dei loro figli.
Chi convoca la Famiglia di fronte alle sue responsabilità? Tocca, innanzitutto, alle scuole, che siano guidate da Dirigenti preoccupati degli studenti non quali “clienti”, che devono tenere alti i numeri degli iscritti, ma come “discenti”, protagonisti della società a venire. E dove insegnino docenti motivati, preparati e reclutati per educare, comunicare, ascoltare, ben pagati e perciò rispettati. Tocca alla politica creare le condizioni per questa Scuola. Queste condizioni oggi sono precarie e la colpa non è né delle famiglie né delle scuole. Da decenni la politica italiana ha abbandonato la scuola in mano alle corporazioni burocratiche e sindacali. Il motivo è il solito: portano voti.
Pubblicato su www.santalessandro.org il 20 marzo 2024
E’ stato consigliere comunale a Milano e consigliere regionale in Lombardia, responsabile scuola di Pci, Pds, Ds in Lombardia e membro della Commissione nazionale scuola, membro del Comitato tecnico scientifico dell’Invalsi e del CdA dell’Indire. Ha collaborato con Tempi, il Riformista, il Foglio, l’ Avvenire, Sole 24 Ore. Scrive su Nuova secondaria ed è editorialista politico di www.santalessandro.org, settimanale on line della Diocesi di Bergamo.
Ha scritto “La caduta del vento leggero”, Guerini 2008, “La scuola è finita…forse”, Guerini 2009, “Scuola: rompere il muro fra aula e vita”, BQ 2016 ed ha curato “Che fine ha fatto il ’68. Fu vera gloria?”, Guerini 2018.