di Giorgio Armillei e Stefano Ceccanti
Trump, Brexit, le elezioni italiane del 4 marzo 2018 hanno squassato gli equilibri tra elettori e partiti della sinistra euroatlantica e messo in moto un vasto processo di ripensamento. Un ripensamento cha va delineando un mainstream fatto da alcuni leader della sinistra “della grande recessione”: Corbyn, Sanders, Ocasio-Cortez. Collocarsi nel mainstream non significa ovviamente andare d’accordo su tutto.
Il neoliberismo è la causa della marea populista?
Tuttavia, un’aria di famiglia si respira, qualcuno lo chiama il millennial socialism.
La diagnosi ridotta all’osso è semplice: il neoliberismo sponsorizzato dalla “terza via” dei Clinton, dei Blair, degli Schroeder e, in quota, dei Renzi, è la causa della crisi della sinistra, prima ancora è la causa dei danni della globalizzazione, e in conclusione è la causa della marea populista.
Anche la terapia è semplice: più stato contro il mercato e la globalizzazione, più sovranità politica contro i processi incontrollabili dell’economia, più tasse sui redditi dei ricchi, più pianificazione dirigista per proteggere l’ambiente: nel linguaggio dei socialist democrats il green new deal. Insomma, stato e slowbalisation al posto di mercato, società e globalizzazione.
Anche l’Unione europea non se la passa tanto bene dentro questo schema: troppo ordoliberale.
Il millennial socialism assomiglia troppo al populismo
Anche se i millennial socialist si pongono all’opposizione delle tendenze populiste e sovraniste, è francamente difficile distinguere le loro diagnosi e le loro ricette da quelle dei partiti populisti e sovranisti. Provate a distinguere le ricette di Corbyn da quelle di Wauquiez. Lo stesso Zingaretti ha detto no al CETA come tutti i partiti populisti e nazionalisti. Ovviamente la sovrapposizione non è totale ma il mood è il medesimo.
Non tutti vanno in questa direzione che potremmo definire di polarizzazione populista: un populismo con matrici di sinistra accanto a un populismo con matrici di destra.
Macron, l’area liberale intermedia di CDU e SPD, alcuni tra i partiti Verdi, la sparuta (ancora?) truppa di The Indipendent Group nel parlamento UK. E se vogliamo dilettarci in letture “elitarie” i pochi economisti liberali che nel Boston Review Forum smontano le tesi ortodosse di Rodrik o Alberto Mingardi che prova a spiegare come della dittatura neoliberista non si riesca a trovare traccia nel nostro paese. Gli avversari dei nazionalpopulisti sono dunque in campo ma certo non sanno cosa farsene della vecchia distinzione tra destra e sinistra. Se usano quella mappa i loro localizzatori rischiano di non vedere nulla.
Oltre l’asse destra-sinistra
Anche il dibattito teorico internazionale nella sinistra sembra un pochino più articolato e complesso delle semplificazioni del millennial socialism.
Andrew Gamble in UK, che pure non è tenero nei confronti delle politiche degli anni Novanta, fa propria l’idea per la quale il conflitto politico si è oggi ridisegnato abbandonando l’asse destra sinistra e collocandosi lungo quello che vede contrapposti populisti e progressisti, tra i quali ultimi con certezza si possono annoverare parti del cosiddetto centrodestra.
E l’australiano Rob Manwaring, in una sorta di istantanea comparativa tra anglosfera ed Europa continentale, pur richiamando la sinistra al dovere di mettere a fuoco con lucidità la minaccia che grava sul sistema delle politiche sanitarie e sociali del welfare, non manca di notare come la via corbyniana sia tutt’altro che chiaramente identificabile come il nuovo brand della sinistra.
La scintilla di Provenzano
Tra gli analisti italiani non sembra invece avere dubbi Giuseppe Provenzano con il suo “La sinistra e la scintilla” da poco uscito per Donzelli. Il libro si distende su un’ampia quantità di temi ma anche in questo caso lo schema principale è abbastanza semplice. Parte con una dichiarazione manifesto: il governo gialloverde è il più a destra della storia della Repubblica. Da questa convinzione deve ripartire la sinistra in Italia. Nessun dubbio per Provenzano, nessun sospetto “album di famiglia”: il reddito di cittadinanza è di destra, anticipare la pensione è di destra, ridurre la flessibilità in entrata del mercato del lavoro è di destra.
Provenzano sembra non cogliere le radici a sinistra di gran parte di queste politiche e finisce curiosamente con il rovesciare e confondere i piani. Il governo gialloverde è di destra, la sinistra deve tornare a fare la sinistra, i moderati debbono pensare a riorganizzarsi per puntare ad un’alleanza a sinistra.
Ma il crinale su cui colloca la sua sinistra, finalmente liberata dai complessi di inferiorità verso l’egemonia neoliberale, è esattamente quello su cui si collocano i governi e i partiti nazionalpopulisti. Con le connesse ricette: sovranità politica e democrazia economica, interesse nazionale, interventismo per combattere i monopoli e orientare l’innovazione.
Per dare gambe alla sua proposta Provenzano ha bisogno così di due antiche ricette togliattiane: annullare la distinzione tra riformisti e radicali e stringere un patto con i moderati per far fronte al comune avversario di destra. Ma al di là della implicita e complessa eredità togliattiana, quello che appare difficilmente riproducibile è l’intreccio tra stratificazione sociale e sistema politico che innervava lo schema togliattiano. Come se il tramonto della “sinistra di centro” del trio Clinton, Blair, Schroeder potesse significare il ritorno puro e semplice allo schema dei gloriosi trenta.
La vecchia moneta socialista
Provenzano è per altro coerente: il suo obiettivo, in perfetto allineamento con il mainstream internazionale, è rimettere in circolazione la moneta del socialismo. Cos’è per lui socialismo, oltre all’interventismo e alla sovranità economica? Nulla di nuovo. Eguaglianza, lavoro, valore della cosa pubblica, redistribuzione di risorse economiche e di potere politico, progressività fiscale e welfare state.
E come può il PD tornare a queste nobili radici? Non certo costruendo o peggio ancora sciogliendosi dentro indistinti fronti comuni di tutte le forze che si oppongono al nazionalpopulismo, superando quindi la distinzione tra destra e sinistra. Può farlo se diventa la casa di una sinistra plurale, superando non la sinistra ma la distinzione tra riformisti e radicali, lavorando per definire una nuova idea di socialismo.
L’elefante di Milanovic o quello di Lakoff?
A suggello della sua ricostruzione Provenzano chiama, come era facile prevedere, l’elefante di Milanovic, il mantra di ogni rifondatore della sinistra che si rispetti. Qui Provenzano fa largo uso del pregiudizio sociologico: la scomparsa del centro moderato nel sistema politico è la conseguenza della ritirata del ceto medio nella stratificazione sociale. Attenzione però a non sbagliare bersaglio, dice Provenzano: l’avversario della classe media occidentale non sono le classi povere dei paesi emergenti ma i «plutocrati globali», del mondo ricco e di quello emergente. Ancora una volta è difficile non sorprendersi di fronte a tanta obiettiva convergenza tra le posizioni di questi rifondatori della sinistra e quelle dei nazionalpopulisti.
Potremmo dire che Provenzano, come molti rifondatori, sbaglia elefante. L’elefante da osservare con attenzione non è quello dei grafici di Milanovic ma quello delle analisi linguistiche di Lakoff: don’t think of an elephant.
Milanovic ci racconta come la globalizzazione incida sulla distrribuzione dei redditi. E racconta tutta la storia della globalizzazione, i costi come i benefici. Non ne racconta solo una parte: le difficoltà del ceto medio nei paesi avanzati, difficoltà che per altro molti studi (Norris Inglehart tra gli altri) negano connessa all’emergere del populismo.
Lakoff ci racconta invece come andare sul terreno dell’avversario per negarne la plausibilità delle posizioni sia in realtà concedergli un vantaggio formidabile. Don’t think of an elephant ci invita a rimuovere l’elefante: ma negare un frame in realtà attiva il frame.
In breve, la sinistra non può pensare di rifondarsi usando lo stesso frame dei nazionalpopulisti, come finisce per fare Provenzano, immaginando ingenuamente di negarne la fondatezza e di dare risposte diverse agli stessi problemi. La sinistra deve imparare a ragionare in uno schema nuovo che rompa l’egemonia del racconto nazionalpopulista. Altrimenti il voltare pagina sarà solo e sempre un guardare indietro.
di Giorgio Armillei e Stefano Ceccanti