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Se l’Italia finge di non vedere la guerra di Putin contro l’Occidente

Russia's President Vladimir Putin attends a ceremony to present Gold Star medals to service members, bearing the title of Hero of Russia and involved in the country's military campaign in Ukraine, on the eve of Heroes of the Fatherland Day at the St. George Hall of the Grand Kremlin Palace in Moscow, Russia, December 8, 2023. Sputnik/Valeriy Sharifulin/Pool via REUTERS ATTENTION EDITORS - THIS IMAGE WAS PROVIDED BY A THIRD PARTY. THIS PICTURE WAS PROCESSED BY REUTERS TO ENHANCE QUALITY. AN UNPROCESSED VERSION HAS BEEN PROVIDED SEPARATELY.

di Alessandro Maran

 

Come ha scritto Vittorio Emanuele Parsi tornando sulle reazioni isteriche suscitate dalle considerazioni del segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, «sulla guerra scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina e contro le democrazie occidentali, il livello del dibattito pubblico italiano è non da oggi imbarazzante per la sciatteria dei ragionamenti, per la ricorrente abitudine a parlare di cose che non si conoscono e a commentare con veemenza dichiarazioni che neppure ci si è presi la briga di leggere, complice magari la solita fatica a maneggiare (e comprendere) l’inglese» (https://www.ilfoglio.it/politica/2024/05/30/news/lo-scadente-dibattito-pubblico-italiano-che-distorce-i-fatti-sull-ucraina-6593834/). Il guaio è che per molti – una vasta area che va dalla destra identitaria e sovranista alla sinistra putiniana – l’antiamericanismo dei tempi che furono si è evoluto in una fascinazione per l’attuale autocrazia russa. E sono ancora in parecchi «a guardare a Putin come a uno “statista” e non come a un macellaio e alla sua cinica e immorale politica di potenza come un modello per l’ordine internazionale post americano». Basta dare un’occhiata ai commenti sui social.
Certo, è in atto, e non da oggi, una guerra ibrida che vede i russi come navigati propagatori di fake news e portatori di una narrazione che pretende di descrivere il conflitto in Ucraina come una battaglia tra Nato e anti Nato. Senza contare che, secondo l’intelligence Usa, a partire dal 2014, l’anno dell’occupazione della Crimea, la Russia ha trasferito oltre 300 milioni di dollari a partiti politici, dirigenti e politici stranieri di oltre una ventina di Paesi per esercitare il suo soft power e influenzarne l’opinione pubblica a proprio favore. Ed è probabile che si tratti di «cifre minime» rispetto a quelle investite complessivamente da Mosca.
Ma – come ho cercato di argomentare nel libro con il quale ho provato a rispondere alla domanda delle domande: perché tanti italiani, e in particolare le élite, sono completamente in balia della propaganda russa? – c’è dell’altro. Il primo ingrediente di un minestrone culturale stratificatosi negli anni è appunto il pregiudizio antiamericano, ma l’Italia ha condannato se stessa a diverse singolari patologie: la “smemoratezza patteggiata”, l’oblomovismo, il campismo, il puntinismo, la nostalgia dilagante per tutto ciò che non c’è più, l’eterna illusione dei nazionalisti, ecc. E se la propaganda russa è riuscita a far breccia è anche conseguenza del disinteresse per la politica internazionale dei media, della politica e, in genere, dell’opinione pubblica: non vogliamo la pace, vogliamo essere lasciati in pace. Perché siamo arrivati a considerare la pace, la sicurezza, la democrazia, il benessere come cose naturali, scontate: la conseguenza, ovvia, dell’evoluzione del genere umano. E abbiamo dimenticato quanto sia costata l’affermazione dell’ordine liberale internazionale, i mali che ci ha risparmiato. Fingiamo perciò di non vedere che quella di Putin non è una guerra (solo) all’Ucraina che vuole diventare una democrazia europea integrata nelle istituzioni occidentali: è una guerra contro l’ordine mondiale creato nel secondo dopoguerra. L’obiettivo di Mosca (e di Pechino) è quello di ridefinire l’equilibrio tra gli attori. Che Russia e Cina stiano cercando di rimodellare il mondo a loro immagine e somiglianza, è sotto gli occhi di tutti. La stessa crisi Ucraina fa parte di uno scontro più ampio che punta a ridimensionare il potere dell’Occidente per fare del mondo un luogo più accogliente per i despoti.
La nostra immagine riflessa nello specchio ucraino non è delle migliori. La campagna elettorale per le europee finge che la guerra russa al sistema liberaldemocratico europeo e occidentale, cioè a noi, non esista. E quelli che vanno dicendo che dobbiamo dare “solo armi difensive all’Ucraina” pensano in realtà che Putin non sia affatto un despota sanguinario, e che con lui si debbano avere rapporti il più possibile distesi, riconoscendo a Putin ragioni e territori. Il fatto che in Ucraina sia entrato un aggressore che da oltre due anni spiana città, deporta bambini, azzera infrastrutture civili di trasporto, energetiche e sanitarie; un aggressore il cui obiettivo era fin dall’inizio quello di abbattere il governo legittimo e instaurare un regime coloniale asservito, come la Bielorussia di Lukashenka, è un problema di secondaria importanza. Insomma, «Putin ha fatto male, certo. Però … Però l’Ucraina se l’è cercata. Se vai in giro vestita in quel modo, così scollata e scoperta, certe cose puoi anche aspettartele» (https://www.nuova-dimensione.it/…/nello-specchio…/).
Questa è l’aria che tira. «Dai, hanno vinto i cattivi, c’è poco da fare», mi ha detto sconsolata un’amica di ritorno dagli Stati Uniti (dove l’ex presidente Donald Trump sembra avere forti possibilità di rientrare alla Casa Bianca: https://scri.siena.edu/…/2024/05/NYT0524-Release.pdf). «E per nostra colossale insipienza», ha aggiunto. Può darsi. Ma continuo a pensare che gli esseri umani non siano marionette nelle mani dei potenti. In fondo, di fronte all’aggressione di Putin, gli ucraini hanno scoperto di essere pronti a combattere per un principio, per l’idea che tocca a loro scegliere il proprio destino. Che la Ue (almeno dal 2014) abbia provato ad armare l’Ucraina è vero. E quelle armi micidiali si chiamano democrazia, lotta alla corruzione e istituzioni di stampo occidentale. Armi che, come Putin sa bene, se dovessero arrivare in territorio russo, sarebbero devastanti per l’autocrazia ex sovietica. Spetta a noi ora decidere se vogliamo continuare ad aiutarli e, insieme, se vogliamo difendere quel mondo occidentale di cui facciamo parte.
Bisognerà comunque prepararsi. Non è detto che il fatto che Trump ora sia stato condannato penalmente cambi qualcosa nella corsa per la Casa Bianca. Il capo della comunicazione della campagna di Biden ha detto: “Questo verdetto non cambia il fatto che gli americani si trovano di fronte a una realtà semplice. C’è sempre soltanto un modo per tenere Donald Trump fuori dalla Casa Bianca: le urne” (https://www.ilfoglio.it/…/il-5-novembre-si-salva-l…/).
In ogni caso, ci saranno implicazioni a livello globale. Due recenti riflessioni sono illuminanti. In un intervento su The New York Times, il direttore di The National Interest, Jacob Heilbrun, sottolinea che nell’orbita degli assistenti di Trump ci sono due filosofie distinte in merito alla politica internazionale. Alcuni (ad esempio l’ex segretario di Stato e capo della CIA Mike Pompeo) sono a favore di una politica estera americana forte e aggressiva alla Ronald Reagan, che, ad esempio, farebbe fronte all’Iran e alla Cina in modo aggressivo. Altri (ad esempio l’ex ambasciatore degli Stati Uniti in Germania e direttore ad interim dell’intelligence nazionale Richard Grenell) sono isolazionisti che si ispirano all’America First. Grenell, ad esempio, si opponeva all’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO ed era favorevole ai populisti di destra, scrive Heilbrun che ritiene che, in un secondo mandato di Trump, la politica estera potrebbe andare tanto in una direzione come nell’altra (https://www.nytimes.com/…/opi…/trump-foreign-policy.html).
Lo stesso Trump rientra chiaramente in quest’ultimo campo, scrive Hal Brands, politologo e professore della Johns Hopkins School of Advanced International Studies, in un articolo su Foreign Affairs, sottolineando l’apparente disprezzo dell’ex presidente per le alleanze a lungo termine e la sua particolare sensibilità al “cosa hai fatto per me ultimamente?”. Trump non è il primo a pensarla in questo modo, scrive Brands. Un paese “normale”, al contrario di un paese che si presenta come il leader di un ordine mondiale liberal-democratico, perseguirebbe il mero interesse nazionale in modo più trumpiano. Durante un secondo mandato Trump, gli Stati Uniti potrebbero spendere molto in termini militari e reagire duramente se minacciati, scrive Brands (“Se fossi stato Presidente avrei bombardato Mosca e Pechino se la Russia avesse invaso l’Ucraina o la Cina avesse invaso Taiwan”, avrebbe detto qualche giorno fa Trump tra il serio e il faceto). «Tuttavia Washington non continuerà a difendere stati lontani la cui sopravvivenza non è ovviamente fondamentale per la sicurezza americana, né continuerà a fornire beni comuni che vengono per lo più consumati da altri. Perché gli Stati Uniti dovrebbero rischiare una guerra con la Russia per l’Ucraina e gli Stati baltici, o con la Cina per delle rocce semi sommerse nel Mar Cinese Meridionale? Perché il Pentagono deve proteggere il commercio cinese con l’Europa dagli attacchi Houthi? Un paese normale non lo farebbe».
Altri analisti hanno scritto che l’approccio di Trump agli affari mondiali potrebbe danneggiare gli alleati degli Stati Uniti e avvantaggiare gli espansionisti autoritari di Russia e Cina. «Per gli stessi Stati Uniti, però», scrive Brands, la politica estera di Trump ispirata all’America First «potrebbe non essere così negativa. La grande ironia della politica estera post-1945 è che il paese che ha creato l’ordine liberale è quello che ne ha meno bisogno. Dopotutto, gli Stati Uniti rimangono il protagonista più forte del mondo. Gode di vantaggi geografici ed economici senza eguali. In un mondo reso più anarchico dalle proprie scelte politiche, Washington potrebbe trovarsi bene, per un certo periodo (…) Alla fine, ovviamente, gli Stati Uniti pagherebbero un prezzo più alto. Se un giorno la Cina riuscisse a dominare l’Asia orientale dopo il ripiegamento americano, potrebbe acquisire il potere di coartare gli Stati Uniti economicamente e diplomaticamente (… ) Nello scenario più brutto (… ) gli Stati Uniti finirebbero per decidere che il crollo dell’ordine globale richiede un nuovo impegno, ma da una posizione significativamente peggiore, una volta che le cose all’interno dell’Eurasia siano andate fuori controllo» (https://www.foreignaffairs.com/united…/america-first-world).
È già successo. Dopo la prima guerra mondiale. In un bel libro dell’anno scorso, “The Ghost at the Feast: America and the Collapse of World Order, 1900-1941” (https://www.penguinrandomhouse.com/…/the-ghost-at-the…/), soffermandosi sui pericoli del ritiro americano dal mondo e sul prezzo della responsabilità internazionale, Robert Kagan ricorda infatti che nel 1919 e negli anni successivi, gli americani «ebbero l’opportunità di realizzare qualcosa che si avvicinava all’ideale di un ordine mondiale liberale autoregolamentato e largamente democratico». Ma, per farlo, avrebbero dovuto «riconoscere che i loro interessi si erano ampliati in conseguenza del loro crescente potere, che il loro destino era in definitiva legato al destino di altre parti chiave del mondo» e che «non avrebbero tollerato uno spostamento degli equilibri di potere a favore di una dittatura globale». Invece, continuarono a pensare che ciò che accadeva nel mondo non li riguardasse. Così si ritrassero dagli affari mondiali e per i successivi due decenni restarono a guardare mentre il fascismo e la tirannia si diffondevano incontrollati, causando infine il crollo dell’ordine mondiale liberale. Il risultato fu che finirono di nuovo in guerra, in circostanze di gran lunga peggiori.
Vale, ovviamente, anche per l’Europa di oggi che la settimana prossima andrà alle urne. «La colpa, caro Bruto, non è nelle stelle, ma in noi stessi, se siamo degli schiavi», dice Cassio nella celebre ed immortale tragedia di William Shakespeare.

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