di Antonio Preiti
Il voto in Danimarca spiazza tutto e tutti per due ragioni. È la prima volta che una forza della sinistra, dopo tanto tempo, vince le elezioni e le vince con una impostazione sull’immigrazione, o meglio verso l’immigrazione di massa (la differenza è cruciale, come vedremo) inedita e opposta a quella finora adottata dalle formazioni di sinistra, sistematicamente sconfitte.
Danimarca: la sinistra che vince
Perché il voto in questo piccolo paese ha un grande significato? Perché dà la sensazione che potrebbe portare, come ha fatto lì, alla sconfitta strategica dei movimenti populisti dovunque in Europa. La Danimarca è importante perché è il paese della socialdemocrazia perfetta, cioè un sistema di welfare diventato modello; perché, come sintetizza il loro pensiero su loro stessi: è un sistema con poche persone molto ricche e ancora meno molto povere; perché è il paese più ambientalista dell’Europa e forse del mondo; perché in tutto l’Occidente le librerie pullulano di libri che insegnano il “metodo danese alla felicità”, perché varie classifiche indicano proprio la Danimarca come il paese più felice al mondo.
Eppure in questo (quasi) paradiso in terra, nel 2015 il Partito del Popolo, cioè i populisti, raggiungono il 21,1 % e con un’altra formazione di destra avevano fatto maggioranza e cacciato i socialdemocratici dal governo.
Se il partito socialdemocratico cede nel suo paradiso, cosa succederà altrove? E infatti è crollo dovunque: in Germania i socialdemocratici non vincono un’elezione da un tempo immemorabile (alle recenti europee sono addirittura al 15,8 %), in Francia i Socialisti sono quasi cancellati e in Gran Bretagna i Laburisti sono la versione in peggio delle convulsioni del Paese (alle Europee hanno appena il 13,7%). Dell’Italia sappiamo.
In sostanza in tutta l’Europa (con l’eccezione della Spagna, che meriterebbe una riflessione a parte, per i contraccolpi della Catalogna autonomista) il modello socialdemocratico non sembra avere prospettive. Però oggi arriva il risultato della Danimarca che rimette tutto in discussione: i populisti scendono all’8,7 % e i Socialdemocratici tornano il primo partito e la sua leader sarà il nuovo premier.
La questione immigrazione
Cosa è successo? La leader del partito Socialdemocratico, Mette Frederiksen, decide di togliere dal centro della scena politica il problema dell’immigrazione. Il suo ragionamento è semplice e cambia completamente la percezione del partito. In sostanza dice: siamo un piccolo paese e non possiamo accogliere tutti.
L’immigrazione di massa ha cambiato e rischia di cambiare definitivamente il volto, la natura e l’identità della Danimarca. Se vogliamo ancora il paese che conosciamo, e il welfare che conosciamo, dobbiamo mettere una barriera all’immigrazione. I singoli provvedimenti o condivisi con il governo o proposti autonomamente dicono: non accetteremo più le quote di immigrati delle Nazioni Unite e dobbiamo trasformare le politiche di accoglienza in politiche di rientro nei loro paesi degli immigrati (con l’istruzione, con aiuti economici e altro); raddoppiare le pene per i crimini del “ghetto”, cioè delle periferie, come furti, scippi, ecc.; chiesto un contributo economico, fino alla confisca del denaro, ai richiedenti asilo per le spese del loro soggiorno; obbligo per tutti gli immigrati di un anno di educazione alla cultura e alle istituzioni della Danimarca.
Allo stesso tempo proposte di innalzamento delle tasse verso i più ricchi; accrescimento delle politiche del welfare (che negli anni si sono ridotte) e rilancio dei diritti dei lavoratori. Questo passo-doppio ha rimesso la Danimarca sui suoi piedi, cioè ha riportato al centro della politica il destino del welfare e disinnescato la lacerazione del paese sull’immigrazione.
Piccola digressione, a questo punto necessaria. In politica vince chi conquista l’egemonia sull’argomento più sentito del momento, cioè sul tema che crea insieme maggiore divisione e maggiore partecipazione emotiva della popolazione: vince chi colma meglio la falda del terremoto.
In Europa e in Italia il tema che crea emozioni contrapposte è l’immigrazione, tema che la gente percepisce non come un problema da ritagliare, perciò settoriale, cioè che coinvolge solo sbarchi, salvataggi e porti da aprire o chiudere. Lo vede in maniera molto più ampia.
Populismo e rivolta culturale
Chi studia il populismo sa che parlare di immigrazione significa parlare di multi-culturalismo e globalizzazione, e il multi-culturalismo ci porta dentro la caverna, potentissima e decisiva, dell’identità di un paese, e di un continente. Chi non capisce questo, non capisce l’essenza del populismo.
Chi studia il populismo sa che è un fenomeno di rivolta culturale e diventa politico solo quando si presentano “veicoli” politici che ne amplificano i contenuti: non è un partito, è un fenomeno sociale. Per i populisti come fenomenologia i partiti sono come un taxi, e i Danesi hanno preso un taxi politico e lo hanno abbandonato una volta che i loro contenuti siano stati elaborati, rielaborati e restituiti alla collettività dal Partito Socialdemocratico. Un partito che rimane aperto, democratico, ipertollerante, insomma ha tutte le caratteristiche dei partiti socialisti e liberaldemocratici del mondo, solo che quando l’immigrazione è diventata di massa, ha detto stop.
In Italia sono due anni che l’argomento principale, se non quasi unico, del dibattito politico al livello popolare (non dei giornali e dei media tradizionali, ma nelle conversazioni della gente) è l’immigrazione, con le sue implicazioni di multi-culturalismo e identità nazionale. Lo sa chi segue quotidianamente i social media e li analizza nel loro insieme e non nei “twitter trend” del momento, fuochi fatui che vivono mezz’ora.
Lega e Partito Democratico
Il partito che ha conquistato i consensi elettorali è stato la Lega che ha rispecchiato maggiormente questo tema: ha offerto delle risposte (anche sbagliate) ma sono parse le uniche, mentre buona parte della sinistra (con l’eccezione dell’ex ministro degli Interni, Marco Minniti), è sembrato parlare d’altro.
Uno sguardo al pensiero collettivo degli Italiani sull’immigrazione, e anche degli elettori del PD, rivelato da uno studio di Sociometrica, descrive perfettamente la situazione. La politica dell’accoglienza con varie gradazioni, è sostenuto dal 18,6 % della popolazione, mentre il 75,5 % non vuole l’immigrazione di massa. Fra gli stessi elettori del PD i favorevoli all’immigrazione sono ancora la maggioranza (52,6 %), ma solo il 7,2 % è “molto favorevole”, mentre il 45,4 % è “abbastanza favorevole”. Il 44,7 % degli elettori del PD è comunque contro le politiche d’accoglienza, che naturalmente non significa non salvare le vite umane in mare – è bene chiarire – ma si riferisce alla strategia politica complessiva verso l’immigrazione. Se si guarda in dettaglio questo atteggiamento generale si scopre che, ad esempio gli operai sono meno favorevoli alle politiche d’accoglienza rispetto alla media, e così quanti vivono nei comuni più piccoli e le donne.
https://antoniopreiti.it/report/l-atteggiamento-degli-italiani-verso-l-immigrazione
Questo ci richiama al concetto principale che Mette Frederiksen ha sostenuto in tutta la campagna elettorale, e cioè che l’immigrazione e la globalizzazione hanno colpito soprattutto i ceti più deboli e indifesi della società danese. E in effetti, è impossibile pensare a un sistema di welfare senza confini, cioè che si riferisca a un numero crescente e illimitato di popolazione, perciò più si estendono i servizi e più deve crescere la ricchezza nazionale prodotta per poterlo finanziare. Oggi in Europa la crescita è minima, e in Italia è zero.
La questione dell’identità
C’è poi la questione formidabile dell’identità. L’Europa ha deciso di non avere radici cristiano-giudaiche. Cioè ha deciso di non avere radici. Ha deciso di non dare riconoscimento giuridico a una qualunque identità, se non a quella delle istituzioni liberal-democratiche, ma tutti sanno che il pensiero liberale e democratico nasce nel e dal pensiero giudaico-cristiano. Si è perciò riconosciuto l’esito pratico, negandone la causa finale; cioè la ragione per cui in questa parte del mondo (di cui l’America è un’estensione) sono nate e cresciute le istituzioni che abbiamo.
Quell’identità negata sul piano costituzionale è riesplosa sul piano popolare, per cui Mette Frederiksen ha trovato subito rispecchiamento popolare non appena ha sostenuto che la quantità di immigrazione, avrebbe cambiato la qualità identitaria del paese. La quantità conta. Anche perché rimette la questione dell’immigrazione su un altro piano, che non è più l’ideologica simmetria dell’“accogliamoli tutti” o del “respingiamoli tutti”, ma sul come, su quanti, e sulle politiche che, una volta usciti dalla simmetria, si fa per rendere questo fenomeno qualcosa di controllabile e di funzionale alla realtà (e all’identità) del Paese. La discussione è aperta.
Economista, docente all’Università di Firenze. È cresciuto al Censis, ha insegnato alla Luiss Management, Università di Bolzano, ha diretto l’Agenzia del turismo di Firenze, ha lavorato per Banca Imi e altre imprese. Ha ricoperto la carica di Consigliere d’Amministrazione di Enit e Vice Presidente di ETC (European Travel Commission). Collaboratore del Corriere della Sera. Svolge professionalmente studi e ricerche per Sociometrica, di cui è Direttore. Twitter @apreiti web www.antoniopreiti.it