Il cessate il fuoco negoziato dal segretario di stato John Kerry e dalla sua controparte russa, il ministro degli esteri Sergei Lavrov, tra il governo del presidente Bashar al-Assad e una moltitudine di gruppi di insorti che gli si oppongono (e che comprende quelli sostenuti dagli Stati Uniti e dai loro alleati), sembra reggere. Anche se l’intesa non include le operazioni contro due delle formazioni ribelli più forti, lo Stato Islamico e la «succursale» di Al Qaeda, Jabhat al-Nursa.
Il conflitto in Siria, si sa, è degenerato da un protesta pacifica contro il governo nel 2011 in una violenta ribellione che ha coinvolto molti paesi. É, in parte, una guerra civile del governo contro il proprio popolo; in parte, è una guerra di religione che contrappone la setta Alawita minoritaria di Assad (schierata con i combattenti sciiti dell’Iran e gli Hezbollah in Libano), ai gruppi di insorti sunniti; in misura crescente è anche una guerra per procura che vede Russia e Iran contro gli Stati Uniti e i suoi alleati sunniti (Turchia, stati del Golfo, ecc.).
In queste condizioni, l’accordo sul cessate il fuoco è destinato a tenere? Il presidente russo Vladimir Putin ha detto che l’accordo potrebbe trasformare «radicalmente» la situazione in Siria, gettando le basi per i negoziati veri e propri. Il presidente Obama è stato più cauto, ma ha detto di sperare che la tregua possa fare risorgere i negoziati di pace tra il governo siriano e i gruppi ribelli e aiutare a riportare l’attenzione sulla necessità di sconfiggere l’ISIS. Le organizzazioni umanitarie sperano invece che la pausa negli scontri possa consentire loro di distribuire cibo e medicine in un paese in cui 400 mila persone sono assediate in zone di guerra e sono minacciate dalla fame e più di cinque milioni di persone vengono regolarmente nutrite dal World Food Programme delle Nazioni Unite.
In circostanze così tragiche come quelle in Siria – mezzo milione di morti, metà della popolazione costretta a lasciare la propria casa – ogni accordo, per quanto limitato, che offra sollievo ed aiuto a chi soffre, dovrebbe essere accolto festosamente. Eppure, è difficile vedere nella tregua parziale qualcosa di più della ratifica dello status quo che si è determinato con l’intervento militare russo ordinato da Putin nel settembre scorso. All’epoca, la guerra era finita in una situazione di stallo e c’erano segnali che il regime di Assad, perfino con l’aiuto significativo dell’Iran e degli Hezbollah, stesse vacillando. Il regime, che dipende dalla minoranza Alawita del paese, non aveva più neppure soldati a sufficienza per puntellare tutto il territorio.
Lo sforzo militare russo, dirigendo la potenza di fuoco principalmente sui gruppi degli insorti sostenuti dagli Stati Uniti, ha consentito al governo di Assad di serrare la presa sulla striscia di città che si allunga da Damasco ad Aleppo e a Latakia, l’area della base russa in Siria. La campagna aerea contro l’ISIS e al-Nusra è stata lasciata sostanzialmente agli Stati Uniti (i cui alleati sono rimasti perlopiù a bordo campo). I funzionari delle organizzazioni umanitarie sostengono che le offensive appoggiate dalla Russia abbiano creato almeno 100 mila nuovi profughi siriani e un numero incalcolabile di sfollati all’interno del paese. Molti rifugiati si sono diretti in Europa, il che, secondo alcuni, somiglia molto ad una vendetta per la sanzioni economiche imposte alla Russia dopo il suo intervento militare in Ucraina.
Anche altri aspetti della tregua sembrano problematici: i leader della Turchia, un membro della Nato, hanno dichiarato che non rispetteranno la tregua in relazione alle forze curde in Siria, che considerano un ramo dell’insurrezione curda nel loro paese. E finora, i curdi in Siria sono stati gli alleati più efficaci degli Stati Uniti nella lotta contro l’ISIS. Inoltre, stando ai funzionari delle organizzazioni umanitarie, molti dei siriani che hanno bisogno di cibo vivono in aree sigillate dall’esercito. Stando all’accordo, ai convogli umanitari dovrà essere garantito pieno accesso a tali aree, ma non c’è nessuna garanzia che sarà davvero consentito loro di passare. E quel che più conta, non è chiaro se la «cessazione delle ostilità» sia davvero attuabile e se il regime di Assad e i suoi alleati abbiano davvero l’intenzione di sottostare ai termini dell’intesa. Fin dall’inizio della rivolta, Assad si è riferito a quanti gli si opponevano definendoli «terroristi» e ha trattato tutti, perfino i bambini, con la stessa sanguinaria determinazione. E non c’è nessun indizio che faccia pensare che ora comincerà a distinguere tra l’ISIS e al-Nusra e le formazioni che invece sono parte dell’intesa. É più probabile che tanto Assad quanto i suoi alleati proseguano con le operazioni militari nello stesso modo di prima. Ed è difficile immaginare che qualcuno in Occidente li possa fermare.
Con l’eccezione della campagna aerea contro lo Stato islamico, l’amministrazione Obama si è rifiutata di accrescere la pressione militare, nella forma di una no-fly zone per proteggere i civili o di qualcosa di più di una assistenza simbolica agii insorti anti-Assad più moderati. Le ragioni che il presidente Obama ha addotto per questo rifiuto non sono campate in aria, in particolare su un punto cruciale: non ci sono formazioni abbastanza credibili da lanciare una seria minaccia ad Assad. Ma, in assenza della forza, dei mezzi, delle capacità americane, il campo di battaglia in Siria sarà rimodellato da altri. Infatti, Assad e i suoi complici restano al potere ed è improbabile che il nuovo round di negoziati e perfino un parziale cessate il fuoco cambino questo dato di fatto.
A meno che le cose non stiano come ha scritto recentemente Dominic Tierney su The Atlantic. Secondo Tierney i russi stanno cercando una via d’uscita dal pantano siriano (ora la Russia non esclude un futuro «federale» per la Siria e sarebbe pronta ad uno «scenario bosniaco»). Dunque, «l’opportunità migliore per un accordo di pace potrebbe essere una situazione in cui Putin si convinca che un trionfo decisivo non è possibile, ma può ancora salvare la faccia spacciando il risultato per un successo. In altre parole, ha bisogno di una storia da raccontare al popolo russo sui risultati positivi della missione. Questa narrazione non deve per forza essere vera, ma ha bisogno di avere una certa truthiness, o una apparente credibilità. E così, per riportare Putin fuori dalla Siria, gli Stati Uniti devono far finta di niente evitando rivendicazioni vanagloriose su una debacle russa». Se così stanno le cose, «Putin ha bisogno di un victory speech. E Washington dovrebbe aiutarlo a scriverlo».