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Soft-skills e hard-skills: ecco da dove riparte la scuola

di Giovanni Cominelli

Una cosa la DAD ci ha rivelato: che istituzione scolastica, sapere, relazione, educazione sono gambe dello stesso tavolo. Se ne manca una, il tavolo cede. Se manca la relazione dei ragazzi tra loro e con i docenti – il che è avvenuto con il prevalere della DAD – la solitudine informatica svuota di senso la missione dell’istituzione, il sapere si perde, l’educazione diviene impraticabile. Più particolarmente: nel vuoto della relazione, il sapere non avanza. Nell’esperienza della DAD il rendimento scolastico si è abbassato, il disagio di molti adolescenti si è elevato: difficoltà di concentrazione, intense sensazioni di solitudine e di fragilità,  fughe nelle strade e nelle piazze, spesso alla ricerca della socializzazione violenta.
Così la DAD ci ha fatto riscoprire l’essenza della missione dell’istituzione scolastica, nascosto sotto la cenere burocratica dell’abitudine: l’educazione. Sapere e virtù umane sono il campo e l’oggetto dell’azione educativa. Sapere e virtù si acquisiscono nella relazione, il cui contenuto è appunto insegnare/apprendere il mondo.
Ora, proprio la retorica della relazionalità, spinta al diapason nel corso della lunga emergenza Covid-19 dai mezzi di comunicazione di massa e dai social/individual media, nonché da uno stuolo di psicologi aggregati alla scuola, ha fatto dimenticare nel dibattito pubblico/politico che relazioni in cui non scorra il sapere del mondo si riduce, nell’ipotesi migliore, a emozionalità vuota, a chiacchiera colma di chiacchiere.
E’ una tendenza del sistema di istruzione già attiva prima dell’avvento del Covid. La centralità della psiche, della corporeità e, di conseguenza, della relazione, per necessaria reazione all’idealismo gentiliano, che prediligeva l’approccio pedagogico alla “imbuto di Norimberga”, ha progressivamente sminuito il ruolo del sapere nella relazione educativa.
Da parecchi anni a questa parte imperversa, ormai egemone, l’ideologia di provenienza anglosassone dei soft-skills. Alma Laurea – il Consorzio interuniversitario fondato a Bologna, al quale aderiscono 75 atenei italiani – ne elenca almeno quattordici, tra cui comunicazione efficace, attitudine al team-work e alla gestione dello stress, autonomia, capacità di adattamento, problem solving, leadership ecc…. Si arriva ad affermare che essi contano più degli hard-skills, acquisiti attraverso il sapere e l’esperienza. Non stupirà, a questo punto, che anche l’etica sia  considerata semplicemente uno dei soft-skills.
Gli Usa sono all’avanguardia nella politica di frantumazione delle discipline, in nome dell’antropologia culturale, nuova scienza universale, in cui si mischiano, nel nome della complessità e dell’interdipendenza disciplinare, frammenti di sapere strappati a unità disciplinari una volta compatte e epistemologicamente definite. Così, nelle nostre Università, sotto i titoli di laurea classici – Lettere, Filosofia, Diritto, Economia, Comunicazione, Pedagogia… – sta sempre di più un pot-pourri di nozioni sparse e irrelate, general-generiche, scarsamente spendibili sul mercato delle professioni, a meno che intervengano in aiuto i famosi soft-skills, che facilitino lo smercio dell’aria fritta.
Che cosa va perduto in questa filosofia dell’istruzione e dell’educazione?

In primo luogo, va perduto l’hardware, per stare al gioco del linguaggio “skillistico”. Cioè, si perde l’accumulazione originaria del sapere, realizzata lungo i secoli. Il sapere umano ha la stessa struttura della barriera corallina: i minuscoli coralli, vivi e protesi nelle correnti dell’oceano del tempo presente, in tanto sono vivi in quanto appoggiano su robuste strutture millenarie, ossificate, ma essenziali.
Ora è in corso la distruzione di questa barriera corallina.  Nonostante l’incremento di massa dei livelli di istruzione, si deve constatare un impoverimento complessivo di sapere professionale e di competenze nella società civile italiana, dei nostri ragazzi, dei nostri insegnanti e dei nostri docenti universitari. Quando i nostri ragazzi e docenti si recano all’estero, soprattutto nel mondo anglosassone, paiono tutti dei Leonardo da Vinci. Peccato che in Italia ci stiamo rapidamente avviando sulla strada anglosassone. Non che il sapere sia scomparso in quei paraggi, si intende. Semplicemente viene concentrato e monopolizzato/privatizzato in grandi centri pubblici e privati, a beneficio di un’élite. Per tornare all’Italia, c’entra qualcosa la perdita di sapere con il degrado dello spirito pubblico, con l’insorgenza populista, con la “cancel culture”, con l’odio anti-elitario delle competenze? Credo di sì. Né stupisce che, in epoca di emergenza Covid, ma anche da prima, non si istituisca più una verifica seria degli hard-skills degli aspiranti docenti., per esempio della lingua italiana, orale e scritta. Certo i concorsi non sono lo strumento più adatto per misurare il pieno possesso della lingua italiana e delle materie di insegnamento. Il Ministero dell’Istruzione è in questi mesi impegnato a riempire frettolosamente i vuoti nei ranghi dei docenti. Per un accumulo di ritardi, inadempienze, inerzie burocratiche mancano al momento 75.000/80.000 cattedre. Ma i sindacati ne calcolano di più. In attesa dei lunghi concorsi, sempre ritardati dall’armata brancaleone dei sempiterni ricorrenti, si reclutano precari a migliaia, inverificati e inverificabili. Forse dotati di soft-skills?

In secondo luogo, ma è la questione decisiva e principale, la conoscenza della realtà – si chiama verità, l’hard-skill per eccellenza – non è più prevista come costitutiva della presenza della persona nel mondo, come il processo dell’autocostruzione dell’umanità dell’uomo. E’ solo un orpello utilitaristico. Non stupisce che l’etica venga ridotta, a questo punto, a un soft-skill, ad una modalità di adattamento all’ambiente, perché la realtà esterna all’Io non è più né un fondamento né un discrimine per le scelte personali. E’ l’etica free- floating, è la libertà free-floating. Se la comunicazione si svuota di rapporto reale con il mondo, le relazioni tra le persone si impoveriscono, si riempiono di emozioni frizzanti, ma passeggere e pronte a rovesciarsi in emozioni collettive irrazionali e piene di odi.
La salvezza delle società occidentali continua ad essere, da Aristotele alla Ratio studiorum, all’Enciclopedia… la conoscenza diuturna, densa, difficile.
Come si fa a trasmettere questo approccio alle giovani generazioni? Come scritto e riscritto un milione di volte e fino alla noia di chi legge la riforma del sistema educativo nazionale è il primo passo decisivo. Che il Covid dovrebbe spingere a fare al più presto. Intanto, però, la scuola reale cammina ogni giorno. Ci sono in cattedra ancora molti docenti preparati, esigenti, severi che chiedono ai ragazzi di impegnarsi lungo la strada della costruzione di sé attraverso il sapere. E spesso i ragazzi li seguono. Albert Camus è stato uno di questi, come testimonia in “L’ultimo uomo”: ”No, la scuola non offriva soltanto un’evasione dalla vita in famiglia. Almeno nella classe del signor Bernard, appagava una sete ancor più essenziale per il ragazzo che per l’adulto, la sete della scoperta. Certo, anche nelle altre classi si insegnavano molte cose, ma un po’ come si ingozzavano le oche. Si presentava un cibo preconfezionato e si invitavano i ragazzi ad inghiottirlo. Nella classe del sig. Bernard, per la prima volta in vita loro, sentivano, invece, di esistere e di essere oggetto della più alta considerazione: li si giudicava degni di scoprire il mondo”. Questo cammino impegnativo è spesso sabotato dalle famiglie, ossessionate dal desiderio di proteggere i pargoli dai sudori del sapere e dal rigore che esso esige. E molti  Dirigenti, scambiando la scuola per un’azienda che deve soddisfare” i clienti” e non perdere iscrizioni e cattedre, assecondano il lassismo e l’irresponsabilità delle famiglie invece che sostenere i docenti. Una politica ottusa e corporativa sta lasciando andare al degrado, lentamente, la scuola, senza avvedersi che è l’intera società a degradare.

 

(Editoriale da santalessandro.org, sabato 11 settembre 2021)

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