di Massimo Veltri
C’è una diffusa vulgata che da tempo occupa spazio e tempo presso una opinione pubblica sempre attenta al vittimismo e all’attribuzione di responsabilità proprie in altre sedi: vorrebbe che il principale se non unico colpevole per le perenni condizioni in ‘ritardo di sviluppo’ del Sud si ravviserebbe nel mancato o insufficiente intervento dello Stato centrale. È bene, io ritengo, soffermare l’attenzione e spendere qualche osservazione all’interno di tale dibattito in prossimità dell’appuntamento elettorale, al riparo da facili schematismi e scontate semplificazioni.
I neoborbonici per un verso, per altro coloro che magnificano tempi dorati risalenti fino all’epopea della Magna Grecia infoltiscono la schiera di chi, per davvero, vagheggia un separatismo tipo una Lega del Sud, fatta di rivendicazionismo e protesta, in ciò favoriti e rinforzati da quanto accadde agli inizi del 2001 e, purtroppo, non derubricato: anzi sempre più insistente, si potrebbe dire persino immanente.
Accadde, per chiarire, quando il governo e il parlamento nazionali a guida centrosinistra sulla soglia dello spirare della legislatura, portarono a compimento un’operazione scellerata – non contingentata ne’ estemporanea o improvvisata, bensì studiata, preparata, voluta – di modifica del dettato costituzionale cui si può dare il nome di regionalismo differenziato.
Un regionalismo – come se non bastassero le critiche feroci con cui già venti anni orsono venivano da più parti commentate le ‘politiche’ delle Regioni d’Italia, un po’ da per tutto e segnatamente quelle da Roma verso sud – tramite il quale in materie le più disparate e le più incidenti sulla vita dei cittadini: dalla sanità ai trasporti, dalla scuola all’ambiente, dell’energia al welfare, ogni singola Regione avrebbe avuto la facoltà di determinarsi autonomamente e al di fuori del contesto d’insieme nazionale, per di più con deliberazioni non soggette all’approvazione del parlamento nazionale.
Un’aberrazione, una abiura, una sconfessione… sono tante le espressioni via via succedutesi volte a etichettare icasticamente un preciso intento politico: espressioni il più delle volte poste a compendio di termini più tecnici quali LEP, spesa storica, LEA, sanciti dall’articolo 117 della Costituzione, con espliciti richiami alla solidarietà nazionale che si volle colpire con un vulnus fortemente lesivo: quello che colpì il Titolo V della Costituzione stessa.
Ancora ci si chiede come poté accadere tutto questo, e non pochi sono coloro i quali, dappertutto lungo tutti gli schieramenti politici, se per un verso affermano che il fai-da-te può essere benefico per il Mezzogiorno (non si sa se definire irresponsabile o assurda questa che sembrerebbe una fake), d’altro canto è come se dessero per chiusa e conchiusa la Questione Meridionale: la politica ha scelto e ha scelto, anche quella del centrosinistra, si’, il nord, il nord produttivo, che esprime capacità di spesa e di intervento, vivacità e proiezione nella modernità, versus il sud legato al passato, piagnone e parassitario, indolente e assistito: sia di esso quel che sarà.
Stando così le cose, è intellettualmente onesto e politicamente corretto rinchiudere il dibattito dentro un’area così rigidamente delimitata?
Non può essere questo lo spazio per sviscerare in tutte le sue accezioni una questione che oltre che meridionale è, in tutta evidenza, nazionale e trasversale: qui, e per il momento, solo puntare qualche bandierina sullo scacchiere, a mo’ di segnale posto come per p.m., per memoria, così che a urne aperte e scrutini ultimati capire come intenderanno muoversi i vincitori e gli sconfitti, a nord quanto a sud. Entrambi e in tutt’e due le parti, dato che la trasversalità politica e la dislocazione geografica troveranno, dovranno trovare, la sede perché si faccia chiarezza e si fuoriesca dall’equivoco, se di equivoco si tratta.
Dai classici fino ai giorni nostri un refrain, generico tanto da apparire consolatorio, ha tenuto banco: il Mezzogiorno sarà quel che il Paese sarà, alternato quasi a mo’ di movimento pendolare con l’altro, non meno veritiero, altrettanto tranchant secondo il quale per il Sud il problema alla radice è quello delle sue classi dirigenti, politiche e non politiche.
E se il Sud mostra ancora e in tutta evidenza condizioni che sempre più l’allontanano dall’Europa, per proprie responsabilità, certo, anche e soprattutto per queste, d’altro canto governare il paese non può confondersi con l’amministrare un’azienda per cui si procede al taglio di certi rami o se ne esternalizzano funzioni: no, dovrà essere la politica a introdurre nuove e magari inedite misure di compensazione, riequilibro, avvicinamento e sostegno.
Con classi dirigenti idonee, s’intende.