LibertàEguale

Sulla guerra il realismo cristiano non cerca alibi

di Giorgio Tonini

 

La guerra è tornata nel cuore d’Europa, trascinando dietro di sé la consueta, orribile e oscena scia di sangue e di lacrime. Una scia che finisce per avvinghiare e divorare, nelle sue tremende e insaziabili spire, aggressori e aggrediti, vittime e carnefici. E per diffondere attorno a sé incertezza e ansia, inquietudine e angoscia: una cappa resa ancora più opprimente dalla consapevolezza che questa guerra in Europa potrebbe degenerare in un conflitto nucleare.

Naturale che in un’ora tornata così buia, si vada alla affannosa ricerca di un barlume di luce per le nostre menti disorientate e un briciolo di calore per i nostri cuori appesantiti. Menti e cuori che sanno di non poter trovare illuminazione e consolazione nelle false, perché troppo facili certezze, quelle che promettono di saltare l’invece insuperabile tormento del dubbio e l’esperienza umanamente intrascendibile di una radicale impurità.

Né pacifisti”, né “bellicisti”: così, in tanti, ci sentiamo oggi. Proprio come percepiva se stesso, ottantatré anni fa, dinanzi al livido bagliore degli elmetti e al sinistro risuonare nel passo delloca degli stivali nazisti, il grande Emmanuel Mounier (Grenoble 1905 – Parigi 1950): filosofo e intellettuale “engagé”, fondatore della rivista “Esprit”, padre del personalismo comunitario, insieme a Jacques Maritain maestro di più generazioni di cattolici democratici e socialisti cristiani. Un “né-né” che lasciava (e lascia) aperta solo una “terza via”, come si diceva già allora, la via stretta e impervia, sia sul piano teorico che su quello pratico, del “realismo cristiano”: un realismo impastato di inquietudine, speranza, pazienza. Inquietudine come antidoto alle due opposte semplificazioni. Speranza, contro la disperata retorica bellicista. E pazienza, invece della fuga pacifista dalla responsabilità della storia.

È questo il nocciolo del breve, ma denso e tagliente pamphlet mounieriano del 1939, “Pacifistes ou Bellicistes?”, tradotto in italiano nel 2008 col titolo “I cristiani e la pace” e appena ripubblicato, anche in versione digitale, dalla casa editrice Castelvecchi. La nuova edizione è arricchita da una prefazione di Stefano Ceccanti, da molti anni protagonista del dibattito ecclesiale e intellettuale, politico e istituzionale. Con la consueta autorevole e documentata agilità interdisciplinare, Ceccanti colloca il testo nel dibattito dell’epoca, segnato dalla dilagante aggressione del nazifascismo e dall’urgenza di organizzare una resistenza, culturale e morale, prima ancora che politica e militare, contro il mostro emerso dal cuore stesso della civiltà europea; ne ricostruisce la contaminazione con l’evoluzione del magistero della chiesa cattolica, prima e dopo il Concilio, e con quella del costituzionalismo democratico europeo, articolo 11 della Costituzione italiana compreso; ne mette in evidenza, infine, la drammatica attualità nei giorni della feroce aggressione russa all’Ucraina.

La visione di Isaia e il pacifismo senza pazienza

Il testo di Mounier affronta il nodo cruciale del pensiero occidentale sulla pace e sulla guerra, storicamente intimamente intrecciato col dibattito teologico giudaico-cristiano. Il testo fondamentale, non citato esplicitamente da Mounier, ma indirettamente alla base della sua riflessione, è un brano biblico, la celebre visione del profeta Isaia: “Alla fine dei giorni, il monte del tempio del Signore sarà saldo sulla cima dei monti e sinnalzerà sopra i colli, e ad esso affluiranno tutte le genti. Verranno molti popoli e diranno: ‘Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe, perché ci insegni le sue vie e possiamo camminare per i suoi sentieri’. Poiché da Sion uscirà la legge e da Gerusalemme la parola del Signore. Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro unaltra nazione, non impareranno più larte della guerra” (Isaia, 2, 2-4).

Il profeta Isaia vede i popoli della terra convergere attorno ad un’unica autorità, un’autorità divina, che si fa arbitro tra le nazioni. Nessun popolo quindi dovrà più combattere per far valere i propri diritti o le proprie ragioni. Sarà Dio stesso il custode della pace. E le nazioni potranno dimenticare la guerra. Perché regnerà la giustizia, al servizio della quale il Signore porrà la sua onnipotenza.

Ma Isaia parla al futuro e dice che tutto ciò avverrà “alla fine dei giorni”. Oltre il tempo, oltre la storia. Dunque la profezia di Isaia ha un carattere escatologico e religioso, non immediatamente storico-politico. È questo il punto che la vulgata pacifista tende ad ignorare, nell’affascinante, ma impaziente è dunque fallace speranza che la visione di Isaia possa diventare realtà, in modo pieno e perfetto, qui e ora, nel tempo della storia.

E invece, scrive Mounier, “la nostra condizione temporale ci impedisce di agire come se la forza brutale fosse assente dal gioco degli uomini, mentre essa non ne sarà mai totalmente bandita prima della riconciliazione finale”. Fino ad allora, la storia è condizionata dal peccato originale, dalla radicale finitudine e imperfezione dell’essere umano, della sua esposizione al male, all’ingiustizia, alla violenza. Perpetrata o subita, da parte di ogni essere umano, non solo di un pugno di malvagi. Per questo, incalza Mounier, “lantropologia cristiana è agli antipodi di quella visione serafica dellumanità che stende i suoi colori puerili sulle effusioni di un certo pacifismo. Bontà naturale degli individui, bontà naturale dei popoli, generosa sovrabbondanza della natura e delleconomia, progresso infallibile della Storia, trionfo spontaneo dellIdea, il suo mondo è un Eden sempre in procinto di manifestarsi se non fosse per i malefìci di un pugno di cattivi: mercanti di cannoni, duecento famiglie, giudeo-massoni, cannibali vari che impediscono il fiorire delle nostre raffinate sensibilità e il propagarsi delle armonie della natura”.

Tutto al contrario, il “realismo cristiano”, ammonisce Mounier, impone di non dimenticare che “odio e violenza rinascono, intatti, nel cuore di ogni generazione; basta che si allenti un po’ il controllo della tradizione o la sua vitalità, e le potenze oscure che emergono dalle caverne della vita e dagli abissi del peccato riesplodono, con unenergia che i tempi possono solo provvisoriamente incatenare, ma che non consumano”. Rifuggire da questa realtà, o anche solo ignorarla, non è purezza, è un’ingenuità che confina con la viltà, perché disarma la resistenza al male, all’ingiustizia, alla violenza che sono parte costitutiva dell’esperienza umana.

“Fin quando le nazioni e noi stessi saremo incapaci di elevarci allautentica non-violenza – conclude Mounier – non concediamoci lalibi di una caricatura politica del Regno di Dio, in cui trovano rifugio le nostre vigliaccherie”. Un atto di viltà, di vigliaccheria era subito parso a Mounier il Patto di Monaco (29 settembre 1938), il cedimento delle nazioni d’Europa alle pretese e ai pretesti di Hitler. Fu chiamata pace, una resa alla violenza. Furono così abbandonate a se stesse le vittime dell’aggressione nazista. E non si riuscì neppure a salvare la pace. Tutto andò perduto. Pochi mesi dopo, il mondo precipitava nella catastrofe della Seconda Guerra mondiale.

Il Magnificat e il bellicismo senza speranza

Se è sbagliata e fuorviante la lettura senza pazienza, che della visione di Isaia propongono i pacifisti, non lo è di meno, secondo Mounier, quella senza speranza proposta dai bellicisti. Per i quali ciò che accadrà “alla fine dei giorni” non ha alcuna rilevanza storica.

Nella storia, l’unica regola effettuale è quella descritta da Thomas Hobbes nel “Leviatano” (1651) e ancora oggi utilizzata, ricorda Mounier, “per giustificare la guerra come lotta per la vita… ‘luomo è lupo per luomo’: ogni tirannia professa questo pessimismo di fondo in merito alla natura umana”. In effetti, per Hobbes, è la guerra la “condizione naturale” dell’umanità, proprio perché “quando gli uomini vivono senza un potere comune che li tenga tutti in soggezione, essi si trovano in quella condizione chiamata guerra: guerra che è quella di ogni uomo contro ogni altro uomo”. In altre parole, la guerra è l’altra faccia dell’anarchia, ovvero della “condizione di mera natura, cioè a dire di assoluta libertà, quale è quella di coloro che non sono né sovrani né sudditi”.

Rimedio all’anarchia e alla guerra è per Hobbes lo Stato, sovrano e assoluto, al quale tutti gli uomini cedono per intero e irreversibilmente la loro libertà, in cambio della sicurezza. Alla guerra, succede così la pace, ma a prezzo della libertà e solo all’interno di ogni Stato. Non c’è invece alcun rimedio all’anarchia (e quindi alla guerra) nei rapporti tra gli Stati. “Ogni sovrano – scrive Hobbes – ha nella ricerca della sicurezza del proprio popolo lo stesso diritto di cui può disporre ogni individuo nel garantire la sicurezza del proprio corpo. La stessa legge che detta agli uomini fuori di ogni governo civile cosa debbano fare e cosa debbano evitare nei loro rapporti reciproci, detta le medesime cose agli Stati”. Allo “homo homini lupus c’è quindi lo Stato come rimedio, ma, fino “alla fine dei giorni”, potremmo dire fino a quando non si avvererà la profezia di Isaia e il Signore sarà arbitro tra le nazioni, ogni Stato sarà lupo per l’altro Stato. Sovranismo e bellicismo come due anelli della stessa catena che imprigiona qualunque speranza di libertà, di giustizia, di pace.

Eppur si muove, la storia. Milleseicento anni prima di Hobbes, era comparsa sulla scena della storia una ragazza ebrea di nome Maria, nei secoli poi venerata dai cristiani, d’Occidente e forse ancor più d’Oriente: questi ultimi la raffigurano nelle loro icone con l’appellativo di “theotòkos”, colei che ha portato Dio in grembo. Nel suo “Magnificat”, Maria traduce, per così dire, la visione di Isaia, dal futuro remoto al passato prossimo: “Grandi cose ha fatto in me lonnipotente e santo è il suo nome; di generazione in generazione la sua misericordia si stende su quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote” (Luca, 1, 46-55). Facendosi uomo dentro di me, dice Maria, il Signore non si limita più ad aspettare popoli e nazioni alla fine dei giorni. La potenza del suo braccio è già all’opera, lavora nella storia per affermare la giustizia e la pace.

“La pace del Cristo – scrive Mounier – ci appare in tutta la pienezza del suo significato. Essa non è soltanto una disposizione degli individui, è una realtà comunitaria. Il Cristo suggella lunità umana riunificando nel contempo luomo interiore. La sua redenzione non offre la salvezza a ognuno di noi in particolare. Egli è morto per ognuno, ma per tutti in uno, ‘al fine’ scrive san Giovanni ‘di riunire in un solo corpo i figli di Dio dispersi’, o ancora, dice san Leone, ‘per fare di tutte le nazioni un solo Regno’.”

Che la fonte di questa grande speranza debba essere considerata divina o solo umana, dipende dal rapporto di ciascuno con la religione cristiana. Quel che conta rilevare è la presenza nella cultura europea, non solo occidentale, accanto alla corrente fredda del bellicismo hobbesiano, di una corrente calda, che vede all’opera nella storia una spinta di superamento dell’anarchia attraverso il diritto e dunque di trasformazione della guerra e della violenza in uso legittimo, misurato, proporzionato della forza, al servizio di “un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia tra le nazioni” (art. 11 della Costituzione).

 

Le tre condizioni della pace possibile

Se il “Leviatano” di Hobbes è il punto di riferimento obbligato della corrente gelida del sovranismo bellicista, la corrente calda ha in Immanuel Kant il suo campione e nel “Progetto filosofico per la pace perpetua” (1795) il suo manifesto. Come Hobbes, anche Kant riconosce che “lo stato di pace tra gli uomini, che vivono gli uni a fianco degli altri, non è uno stato naturale, il quale è piuttosto uno stato di guerra”. Lo stato di pace “deve venire istituito; poiché l’assenza di ostilità non rappresenta alcuna garanzia di pace, e se questa garanzia non viene fornita a un vicino dall’altro (la qual cosa può avvenire solo in uno stato di legalità), il primo può trattare il secondo come un nemico”. A differenza di Hobbes, tuttavia, il filosofo di Königsberg (oggi Kaliningrad, l’enclave russa sul Baltico, tra Polonia e Lituania) ritiene che il passaggio dallo stato di natura (e dunque di guerra) a quello di legalità (e dunque di pace) possa avvenire non solo tra gli uomini nello Stato, ma anche tra gli Stati, gli uni in rapporto agli altri.

A tre precise condizioni.

La prima è che “in ogni Stato la costituzione civile sia repubblicana”. Per Kant, una costituzione repubblicana è una costituzione non dispotica, noi diremmo liberaldemocratica, ossia fondata sullo stato di diritto e sulla partecipazione politica dei cittadini, due potenti anticorpi rispetto alla guerra.

Seconda condizione: “il diritto internazionale deve fondarsi su un federalismo di liberi Stati”. La cessione di sovranità a organizzazioni sovrastatuali di tipo federale è la leva per forzare il principio hobbesiano dell’insuperabilità dell’anarchia nei rapporti tra Stati sovrani e dunque affermare la forza del diritto sul diritto della forza.

Terza condizione: “Il diritto cosmopolitico deve essere limitato alle condizioni dell’ospitalità universale”. “Ospitalità – chiarisce Kant – significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro… In questo modo parti del mondo lontane possono pacificamente entrare in rapporti reciproci che alla fine diventano pubblicamente legali, avvicinando così sempre di più il genere umano verso una costituzione civile universale”.

La vera alternativa al bellicismo sovranista non è dunque il pacifismo utopistico, ma un paradigma “liberale”, fondato sul trinomio democrazia-federalismo-globalizzazione, diritti umani compresi: un paradigma per il quale il fondamentale processo di democratizzazione degli Stati nazionali deve completarsi e in qualche modo sfociare nel loro incontrarsi in sedi di limitazione e organismi di condivisione della sovranità, e nella promozione e diffusione universalistica dei diritti dell’uomo, ivi compresi i diritti sociali, i diritti ad un equo accesso ai beni della terra e alle opportunità di sviluppo.

“È evidente – questo il rimpianto e il rimprovero di Mounier, davanti al fallimento della Società delle Nazioni – quanto furono colpevoli, ai tempi in cui nulla era ancora perduto, quei cristiani che hanno incessantemente minato le istituzioni di Ginevra… Non c’è da escludere che una vigorosa invasione di realismo cristiano avrebbe potuto liberare la Società delle Nazioni dal fariseismo e dallimpotenza in cui alla fine è sprofondata. Limpreparazione degli spiriti e delle nazioni alla nuova istituzione era sì una minaccia di fragilità, ma non accade forse che ‘la macchina’, come la chiama Pascal, sociale o corporale, mediante il suo stesso funzionamento, rimuove gli ostacoli alle disposizioni dellanimo e opera una impercettibile educazione delle coscienze?”

 

Non c’è diritto senza forza

Non è vero, quindi, che fino alla fine dei giorni dobbiamo rassegnarci alla cupa disperazione bellicista. La lunga marcia dei popoli verso il monte sul quale è assiso il Signore giudice tra le genti, che con la forza del suo braccio amministrerà la giustizia rendendo possibile la fine della guerra, è già in atto. Ma sarebbe folle pensare e vile agire, come se questo lungo, travagliato e mai lineare cammino fosse già concluso, una volta per sempre. Non è e forse non sarà mai così. Perché il destino della storia umana è procedere in un territorio conteso tra il “non ancora” di Isaia e il “già” di Maria.

E il “progetto filosofico” di Kant deve affermarsi in una realtà profondamente e duramente segnata dall’anarchia hobbesiana. La corrente calda deve lottare contro quella fredda, non può sperare in una sua facile resa. Più concretamente ancora, le nazioni che hanno fatto proprio il progetto kantiano non possono solo decantarlo, devono promuoverlo e se necessario anche difenderlo: dai suoi tanti nemici, interni ed esterni. Nel mondo hobbesiano dell’anarchia violenta, la speranza kantiana del primato del diritto non può affermarsi senza il supporto di un uso misurato e proporzionato della forza.

“Non esiste diritto – scrive Mounier –  che non sia stato plasmato da una forza, che non si sostenga senza una forza. Le democrazie liberali sono nate come le dinastie ereditarie: con una presa di potere. Il diritto sindacale non è derivato dallo zelo dei giuristi né dalla buona volontà dei privilegiati, come pure laffrancamento della borghesia nel XVIII secolo: sono tutti stati determinati dalla pressione di una forza… La forza è allorigine e non può essere eliminata per tutto il cammino percorso dal diritto: perché il diritto, con la sua sola affermazione, provoca la forza e deve poi da questa proteggere la sua libertà di passaggio”.

Superfluo, forse, sottolineare l’impressionante attualità del lucido ragionamento mounieriano: il progetto kantiano, con la sua sola esistenza provoca una risposta aggressiva di tipo hobbesiano. Ne sanno qualcosa gli ucraini che hanno provocato la feroce reazione della volontà di potenza putiniana, non per aver minacciato l’uso della forza, ma per aver abbracciato il progetto kantiano dell’Unione europea: stato di diritto e democrazia, federazione di stati, apertura alla globalizzazione.

Se il comunismo, nella sua tragica realizzazione sovietica, minacciava l’Occidente facendo leva sui suoi torti e i suoi limiti (la disuguaglianza, lo sfruttamento, le vittime del successo del mercato) così contribuendo a provocare la risposta riformista che lo avrebbe sconfitto, il “putinismo”, questa miscela reazionaria di nazionalismo, fascismo e mafia, aggredisce l’Ucraina e minaccia l’Europa e l’Occidente per i suoi meriti, le sue ragioni, i suoi valori migliori. A maggior ragione dunque non potrà produrre altro risultato che questa lunga scia di sangue e lacrime. Perché le democrazie ripudiano la guerra, al punto da rimuoverla. Ma quando sono costrette a farlo, sanno difendersi.

“In un mondo in cui certi vogliono la guerra – conclude Mounier – rifiutare ogni azione che potrebbe comportarne il rischio significa rifiutare ogni resistenza, poiché il rischio è ovunque, salvo nellavvilimento o nel suicidio deliberato. Questo rischio deve essere corso, facendo al contempo uno sforzo tanto più eroico per scongiurarlo… Sarebbe vano dissimulare la componente tragica di queste opzioni in un mondo in cui tutto sembra carico di disperazione e di peccato… Lottiamo disperatamente contro la guerra che viene, non accordiamole neanche un briciolo di complicità. Ma non riusciremo a esorcizzarla se non allo stesso modo in cui si scongiura la malattia: presentandole unanima sana in un corpo sano. Contro il ‘bellicismo’, questo riducente: lassoluto della Carità cristiana; contro quella forma di ‘pacifismo’ che serve le imprese della violenza: la vocazione terrena del cristiano, lumiltà che è il senso della terra, una pazienza con la Storia che è la stessa inesauribile pazienza di Dio”.

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