di Stefano Ceccanti
(Intervento in aula sulla riduzione dei parlamentari – 7 ottobre 2019)
Grazie, Presidente.
A noi del gruppo del PD, come al gruppo Italia Viva e come al gruppo di LEU, capita oggi un compito delicato perché abbiamo l’onere della prova di spiegare perché, in quarta votazione, votiamo sì a un testo su cui abbiamo votato no nelle precedenti tre votazioni. È una cosa sempre difficile perché, di fronte a un contesto nuovo, non è facile spiegare una scelta nuova e si rischia di non essere compresi.
Ricordo a tutti una pagina molto bella del teologo Harvey Cox, che racconta di un bravo clown il cui circo ha un incendio e lui si reca nella città vicina spiegando disperatamente che c’è un incendio ma, siccome è vestito da clown, tutti lo interpretano nel modo tradizionale e pensano che sia uno scherzo e nessuno li aiuta.
Quindi abbiamo l’onere di spiegare bene la novità intercorsa. Noi non abbiamo mai avuto una contrarietà di principio alla riduzione del numero dei parlamentari ed è difficile per qualsiasi forza politica dire di avere una contrarietà di principio, perché lo ricordava prima il collega Fornaro, come spiega il professor Clementi nel suo saggio sull’Osservatorio delle fonti, chiunque si sia cimentato con le riforme costituzionali dal 1983 in poi ha sempre proposto la riduzione dei parlamentari. Quindi nessuno può esibire obiettivamente una contrarietà di principio. Quindi noi non stiamo dicendo quanto scherzosamente diceva Groucho Marx: abbiamo i nostri principi ma, se volete, li possiamo cambiare. No, perché in questo caso non li abbiamo cambiati.
Sia invece chiaro che, quando si tratterà di cose di principio, noi lo diremo e lo diciamo. Se qualcuno vuole proporre di cambiare l’articolo 67 della Costituzione, il divieto di mandato imperativo, noi gli ricorderemo che quello è un principio supremo non modificabile neanche per revisione costituzionale al di là della concreta formulazione, perché non si può trasformare un’Assemblea parlamentare in un insieme di delegazioni dipendenti da un vertice di partito.
Se qualcuno vorrà ancora difendere la prescrizione senza limite, che è in vigore nel nostro ordinamento per errore del precedente Governo, gli ricorderemo che noi non possiamo difenderla, perché viola la ragionevole durata del processo (articolo 111). Se qualcuno vorrà sostenere il sorteggio – lo dico al Ministro Bonafede – noi gli ricorderemo che non possiamo votarlo, perché il sorteggio viola per il CSM l’elettività sancita in maniera netta dall’articolo 104 della Costituzione. Quindi, quando ci sono questioni di principio noi le diremo, ma in questo caso la questione di principio non c’era.
Se non era di principio, allora che cosa era? Era l’assenza di un contesto, perché i testi hanno senso dentro un contesto: non si possono leggere da soli. Ora noi – domani i capigruppo che hanno lavorato su questo lo spiegheranno bene – abbiamo costruito un contesto a partire dalla formazione del nuovo Governo. Tale contesto riguarda tre interventi per i quali la maggioranza, in apertura con le opposizioni, si è messa d’accordo.
Noi restiamo convinti comunque che sarebbe opportuna una riforma anche più radicale di contesto, quella per cui ci siamo battuti in maniera sfortunata nel referendum costituzionale del 2016, ma che resta valida: una Camera delle Autonomie sganciata dal rapporto fiduciario e anche più piccola a questo punto dei 200 membri e l’altra, invece, in cui il rapporto fiduciario è lasciato alla sola Camera.
Però, quando non si trova il consenso sulla propria impostazione si può comunque cercare di far rientrare alcune di queste esigenze per altra via; tra queste esigenze ce ne sono due su cui la maggioranza si è trovata d’accordo e che riguardano, logicamente, la riduzione di differenze non più difendibili.
Il nostro ordinamento si è mosso a partire dal 1963 sulla riduzione di differenze non ragionevoli tra Camera e Senato; ricordo a tutti che nel 1963 fu eliminata la durata di sei anni del Senato, per evitare che si potessero creare maggioranze diverse, e fu stabilita a cinque anni, ma dopo la sentenza n. 35 del 2017 sull’Italicum e dopo l’invito del Presidente della Repubblica ad armonizzare le due leggi, fintanto che le due Camere hanno tutte e due il potere fiduciario, bisogna armonizzare il più possibile le due leggi; quell’invito era un invito, sul momento, sulla legge elettorale, ma anche un invito sulle riforme costituzionali; da qui, la riduzione a diciotto anni dell’elettorato attivo, cosa che rende molto più difficile la formazione di maggioranze diverse, illogica nelle due Camere, e anche dell’elettorato passivo a 25 e, da qui, come ha spiegato il collega Fornaro, l’eliminazione della base regionale del Senato che consente due leggi ancora più simili, perché finché hanno tutte e due la fiducia più sono vicine e meglio è. Poi, accanto a questo, c’è il mantenimento dell’equilibrio voluto dai costituenti, nell’elezione del Presidente della Repubblica, fra i delegati regionali e i parlamentari.
Questi sono i tre impegni immediati che la maggioranza prende, oltre agli altri tre che la maggioranza prende da studiare insieme nei prossimi mesi: la legge elettorale, su cui non mi soffermo, perché avrà bisogno di approfondimenti specifici, ma anche due ragionamenti sull’inserimento di una differenza invece ragionevole, la vicenda dell’autonomia differenziata, che, nei mesi scorsi, ha posto il problema sia della valorizzazione del Parlamento, evitando che arrivassero testi preconfezionati e non votabili, ma anche di un coinvolgimento di tutte le regioni nel procedimento legislativo e, quindi, l’importanza di inserire i presidenti delle regioni al solo fine di votare insieme le leggi sull’autonomia differenziata.
L’articolo 11 della riforma del 2001 aveva già inserito nella Commissione bicamerale per le questioni regionali rappresentanti di regioni ed enti locali, novità che poi non è stata portata a compimento, perché comportava un problema: lì, rafforzava il quorum per votare le leggi di principio sulla legislazione concorrente; le leggi di principio sulla legislazione concorrente sono materia di rapporto fiduciario e, quindi, delle persone non elette in Parlamento si trovavano a dover incidere sul rapporto fiduciario. Noi non vogliamo questo, vogliamo che, invece, la responsabilità dei presidenti di regione sia affermata in maniera collettiva per le scelte sulla specializzazione di ciascuna delle regioni ordinarie.
Infine, dobbiamo riflettere – soprattutto se la legislazione elettorale dovesse andare in senso proporzionale – sugli antidoti classici che si cercano sul piano costituzionale, che non fanno miracoli, ma che sono logicamente connessi, ovverosia, principalmente, la sfiducia costruttiva a Camere riunite e la fiducia iniziale. C’è chi dice: sì, ma così, se poi la fiducia sui singoli provvedimenti legislativi resta monocamerale, c’è un problema. Ma noi vogliamo, appunto, scardinare l’idea che si debba essere costretti, ogni volta, a fare decreti e questioni di fiducia. Per questo, l’impegno per la riforma regolamentare, che è importantissimo, che è partito nei mesi scorsi e che dovrebbe consentire, non solo di adeguare i numeri, ma anche di avere date certe per i provvedimenti del Governo e una limitazione della questione di fiducia, è del tutto coerente con questo disegno.
Vorrei, quindi, chiudere con questo: mi è capitato di assistere, purtroppo qualche decennio fa, a un dibattito nella sede dell’Arel, guidata allora da Beniamino Andreatta, in cui Roberto Ruffilli, che poi fu ucciso nel 1988, ricordò a tutti un’elementare verità: si possono distinguere i due tavoli, il tavolo dove si fanno le riforme costituzionali, dove le maggioranze devono essere più larghe possibili – e anche quella della scorsa legislatura era partita come maggioranza ben più ampia della maggioranza di Governo e fu il ritiro unilaterale di Forza Italia a farla diventare, alla fine, solo di maggioranza -, dal tavolo della maggioranza politica, ma i due tavoli stanno nella stessa stanza. Il clima che si respira su un tavolo incide sull’altro e viceversa ed è per questo che nella creazione del contesto ha inciso in maniera notevolissima la formazione del nuovo Governo a partire dal punto 10 all’accordo di governo.
Quindi, noi non è che votiamo “sì” perché siamo in maggioranza e basta, noi votiamo “sì” perché quell’accordo di maggioranza ha contenuto quel punto 10 che ora stiamo sviluppando negli accordi di maggioranza e che offriamo all’opposizione. È un contesto su cui lavoriamo insieme. Ci dice qualcuno, anche sui social: ma voi vi fidate a votare oggi un testo, mentre gli altri impegni sono successivi e potrebbero essere disattesi? Ma se noi facciamo insieme un Governo, un Governo per governare l’Italia fino al 2023, non ci dovremmo fidare reciprocamente anche di questo? Allora, non avremmo dovuto fare il Governo, ma, se abbiamo fatto il Governo, ci fidiamo reciprocamente che questa maggioranza saprà dare il meglio di sé (Applausi dei deputati dei gruppi Partito Democratico e MoVimento 5 Stelle).
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.