Intervista a Stefano Ceccanti apparsa su Il Dubbio il 19 agosto*
Nel Partito democratico il dibattito sul prossimo referendum costituzionale si fa sempre più ampio, con alcune importanti personalità che si schierano apertamente per il no e chiedono una seria discussione interna al partito. Non è dello stesso avviso, almeno sul voto, Stefano Ceccanti, costituzionalista e deputato del Pd alla sua seconda legislatura.
Onorevole Ceccanti, perché non è d’accordo con Matteo Orfini che su queste colonne ha invitato il Pd a votare no al referendum?
Perché mi sembra che non venga valutato in modo giusto il lavoro svolto dal Pd che ha votato Sì nell’ultima decisiva lettura perché ha cambiato la natura di quella riforma, collocando il testo in un contesto. Mentre nelle letture precedenti la maggioranza giallo verde si era blindata, addirittura facendo dichiarare inammissibili i nostri emendamenti, viceversa all’atto della formazione del Conte 2 vi fu un preciso accordo che comprende significative modifiche integrative. Si tratta dell’allineamento dell’elettorato attivo e passivo del Senato a quello della Camera (18 anni per l’attivo e 25 per il passivo), eliminando il rischio di maggioranze diverse e rimediando ad un’anomalia democratica, del superamento della base regionale al Senato consentendo così circoscrizioni pluriregionali con una maggiore articolazione della rappresentanza e della riduzione dei delegati regionali nella platea che elegge il capo dello Stato, riportandola all’equilibrio tradizionale. Tutti testi oggi già ben incardinati alle Camere, anche se bloccati dall’emergenza nei mesi scorsi. L’accordo prevedeva anche la disponibilità al varo di una nuova legge elettorale, i cui contorni a differenza di quelle costituzionali, chiarissimi sin da subito, si sono poi precisati solo ad alcuni mesi di distanza e su cui è ragionevole attendersi un lavoro serio. In ultima analisi Orfini sembra non credere alla serietà dell’accordo sulle ulteriori riforme costituzionali e drammatizza le difficoltà, che pur sono obiettive, sulla legge elettorale. La sua attenzione sembra rivolgersi quasi esclusivamente a quest’ultima, che tuttavia è una legge ordinaria e quindi di per sé reversibile, e su cui tutti sanno che le intese sono sempre più travagliate. Io penso invece che dobbiamo avere più fiducia nel processo che scaturirà dal successo del Sì, dalla breccia che si aprirà. D’altronde votando il 20 settembre, la breccia è l’immagine giusta…
Ma non è troppo alto il rischio derivante dalla riduzione dei parlamentari senza prima o contemporaneamente altre modifiche alla Costituzione?
L’accordo è stato fatto su dei correttivi che rimediano ad alcuni inconvenienti, anche significativi. Stiamo attenti: parlare di questi correttivi o integrazioni non significa sostenere che la riforma è dannosa e che solo quelli ridurrebbero un danno che sarebbe comunque tale. Se la cosa si impostasse erroneamente così, allora avrebbe ragione chi propone di votare No, eliminando del tutto i danni. La riforma è positiva, sono i numeri della Commissione De Mita-Jotti dei primi anni ’90 quando si era già consolidata l’Unione europea e si stavano rafforzando le Regioni, ma come ogni scelta positiva fatta in modo chirurgico, ha poi bisogno di integrazioni per limitare effetti collaterali sgradevoli.
Nel 2016 lei sostenne fortemente la riforma Boschi-Renzi, molto più organica di questa. Perché ora dice sì a una riforma “zoppa”?
Perché nel 2016 abbiamo perso e la vittoria del No è stata anche l’indicazione di riforme fatte ‘a spezzatino’ anziché in modo organico, come sostenuto da varia parte della dottrina. A me quella tesi non ha mai convinto più di tanto perché, come si è detto, così facendo si determinano comunque effetti collaterali e perché le nostre istituzioni avrebbero bisogno di riforme più incisive e simultanee, però bisogna anche fare i conti coi risultati del 2016.
Quel che è certo è che servirà a breve una nuova legge elettorale. A che punto siamo?
Ci sono delle esigenze di riforma che precedono e che sono autonome rispetto alla riduzione dei parlamentari. In particolare la spinta ad evitare sistemi con i quali una maggioranza relativa in voti possa trasformarsi in maggioranza assoluta in seggi anche molto ampia (come può accadere con sistemi basati sui collegi uninominali in cui, a differenza dei premi di maggioranza, la sovrarappresentazione non è predeterminata) viene da prima, da una lettura politica, secondo la quale il primo partito, la Lega, è antisistema perché persegue l’uscita dall’Unione europea e anche il sovranismo di Fratelli d’Italia sarebbe pericoloso. Poi ci sono i motivi aggiuntivi legati alla riduzione, come l’ampiamento della dimensione dei collegi che diventerebbero abnormi e una certa semplificazione della rappresentanza nelle Regioni piccole al Senato. Sono esigenza complesse tanto che il Pd era andato al tavolo con due proposte diverse: quella di un premio di maggioranza che portasse i vincitori al massimo al 55 per cento dei seggi e quello di un proporzionale con soglia alta di tipo tedesco, quello che poi fu siglato alcuni mesi fa. Il punto è che, come ci direbbero i politologi, l’approvazione in Parlamento di una legge elettorale accompagna dei processi politici in corso, non li crea dal nulla, e quindi ha bisogno di due elementi, lealtà reciproca e pazienza, entrambi necessari.
Ma quindi il Pd come dovrebbe votare?
Ferma la libertà di coscienza di ciascuno, ed infatti alcuni di noi sono già comunque in campagna, non credo che nessuno capirebbe un’assenza di orientamento. Avendo votato Sì nella lettura decisiva ed essendo in pista i correttivi, credo che il Pd debba fare la sua campagna per il Sì.
Crede che il Pd stia diventando sempre più un partito populista, inseguendo su molti temi il Movimento 5 stelle? Penso ai decreti sicurezza, alla giustizia, allo ius soli…
Io credo che senza questo Governo saremmo usciti dall’Unione europea e ci saremmo trovati molto probabilmente in una situazione analoga a quella di chi durante il Covid è stato guidato da populisti irresponsabili. Ovviamente su altri terreni il bilancio non è stato così positivo, anzi in alcuni casi c’è stato un continuismo da superare. Tuttavia in politica occorre darsi una gerarchia di priorità e quelle più importanti sono state perseguite.
Ma il Movimento è lo stesso del “Pd che toglie i bambini con l’elettroschock” di Di Maio e del “dovete morire” di Paola Taverna. Come fate a dire sì a questa alleanza?
Guardi, ognuno di noi ha un’immagine dell’altro a partire dal suo osservatorio quotidiano, anche se poi la realtà è più complessa. Il mio è la Commissione Affari Costituzionali: lì il rapporto con il M5S è molto positivo. Non mi nascondo i problemi più complessivi, ma siamo in un processo i cui esiti non sono predefiniti, a cominciare dalla tappa più importante, il futuro voto sul Mes. Abbiamo fatto una scommessa un anno fa, vale la pena di proseguirla. Anzitutto per l’Italia.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.