di Vittorio Ferla
Domenica scorsa nella cornice futurista e onirica della Nuvola di Fuksas è andato in scena il battesimo di Elly Schlein come nuova segretaria del Pd. Una lunga ovazione ha salutato la fine del discorso della neoeletta, quasi a suggellare, insieme, lo scampato pericolo e il senso di rivincita. È almeno dal crollo del 2018 – peraltro peggiorato nelle elezioni successive – che si parla del Pd come di un soggetto in via di estinzione. In questi anni in cui il partito ha opposto una notevole capacità di resilienza, sia i dirigenti che la cerchia degli intellettuali e opinionisti di riferimento hanno attribuito le ragioni del pericolo alla perdita dell’identità della sinistra, all’eccesso di ‘governismo’ (che, tradotto, sarebbe la perdita della purezza dovuta alla promiscuità con il potere), allo spadroneggiare delle correnti, al difetto di chiarezza distintiva della leadership.
Ecco che l’onda travolgente di Elly Schlein sembra arrivata proprio a purificare il partito dalle sue recenti infezioni. Tra queste: i residui del ‘renzismo’, vissuto come una malattia purulenta, e l’esecutivo Draghi in coalizione con la Lega, sopportato a mala pena come un odioso atto di responsabilità.
Oggi, con l’astro nascente di Schlein, il Pd sembra cominciare una nuova storia che vorrebbe emanciparsi perfino dal suo atto fondativo: il Manifesto riformista del Lingotto. Schlein ha dalla sua alcune caratteristiche vantaggiose e delle qualità indiscutibili. È libera dai vincoli delle tribù che hanno gestito il partito finora. È la prima segretaria ‘nativa democratica’ nella storia, il che le permette di rivolgersi a un target di elettorato finora respinto dagli epigoni delle culture fondatrici. È una donna e ciò oggi rappresenta un plus, vista anche la novità di Meloni alla guida del governo. Interpreta la leadership con uno spirito di apertura e di accoglienza. Nel corso della sua relazione alla Nuvola ha saputo trascinare i delegati democratici con richiami continui a pietre miliari identitarie (“stare dalla parte di chi fa fatica”), ha mostrato un volto accogliente dando valore a tutte le culture fondative del Pd (socialisti, cattolici democratici, laici liberali, ecologisti, cristiano sociali, ecc.), ha perfino fondato il mix di giustizia sociale e giustizia climatica sul magistero di Papa Francesco sull’ecologia integrale, ha giocato i classici jolly della piazza antifascista di Firenze e del corteo pro-migranti di Cutro, ha rilanciato le parole d’ordine della difesa della Costituzione, della sanità e del lavoro.
La sua narrativa, tuttavia, è rivolta esclusivamente al recupero e alla rianimazione del popolo disperso della sinistra sulla base di un programma che appare abbastanza disincarnato dalla realtà. È vero che recuperare prima di tutto i propri elettori perduti è un passaggio indispensabile per poter tornare a competere, ma bisogna ricordare che, storicamente, l’elettorato di sinistra-sinistra non supera in Italia il 30% del totale. Forse è possibile raggiungere quella soglia, ma se ciò avverrà sarà certamente a scapito del M5s e dei piccoli gruppi di sinistra (alcuni dei quali peraltro sono già ritornati alla casa madre attraverso Articolo Uno). Ragionare di alleanze con questi soggetti, pertanto, non aumenterà certamente la potenza di fuoco di una “sinistra delle barricate”: quelle che Schlein ha già promesso di fare su una serie di questioni, senza chiarire granché sulla proposta di governo.
Alla fine, quello di Schlein sembra più il discorso dell’allenatore che cerca di rincuorare, rimotivare e galvanizzare i suoi atleti, ma al di là delle abilità di coaching psicologico servirebbe anche avere degli schemi e delle strategie utili per dettare il gioco, dominare il campo e vincere la partita. Al di là della gioventù di chi lo espone, il programma del Pd, in questo momento, sembra una rimasticatura di luoghi comuni: principi alti e magari condivisibili sostenuti da strumenti superati e inadeguati.
Il programma che emerge dal lungo discorso di insediatura di domenica sembra quasi una copia di quello di Articolo Uno, una forza che non ha mai nemmeno raggiunto il 5% dell’elettorato. Schlein parla di difesa della Costituzione con grande trasporto, ma in Italia nessuno attenta alla Costituzione, men che meno il governo di Meloni che ha sostituito il sovranismo sguaiato con un moderatismo di stile europeo. Schlein parla di difesa della sanità pubblica, ma, ancora una volta, non si capisce da dove arriva il pericolo visto che il servizio sanitario italiano è tra i più estesi ed efficaci in Europa, che negli ultimi anni è stato governato da un ministro di sinistra-sinistra e che nessuno ha in mente di metterlo in discussione. In più, la neosegretaria del Pd – che pure è stata parlamentare europea e vanta ai quattro venti il suo europeismo – dimentica di sventolare l’unica bandiera sensata se si vuole davvero sfidare il governo sulla sanità: la ratifica, prima, l’adozione, poi, del Mes, il Meccanismo europeo di stabilità. Proprio nel corso della pandemia è stata prevista la possibilità di accedere al cosiddetto “Mes sanitario”, che per noi equivarrebbe a circa 37 miliardi, la cui unica condizionalità sarebbe di utilizzare i relativi fondi a esclusivo sostegno del sistema sanitario.
Schlein parla poi di difesa del lavoro ma mette in campo dei pannicelli caldi: non basta certo il salario minimo – misura sacrosanta che l’Italia deve adottare per non restare indietro rispetto ai parametri europei – né la tutela dei rider per aggredire il tema dell’occupazione. L’idea di proibire progressivamente l’adozione di contratti a termine tradisce una concezione rigida del mercato del lavoro, immaginato solo ed esclusivamente come lavoro impiegatizio, sulla base del modello pubblico. Siamo davvero lontani anni luce dal modo in cui si sono evolute le dinamiche sociali in un sistema del lavoro fondato sul terziario avanzato. Non a caso neanche una parola è dedicata dalla Schlein al mondo delle partite Iva, evidentemente considerate tutt’al più una deviazione dallo schema ideologico dominante a sinistra. Davvero singolare, poi, che sia proprio una donna a dimenticare che la base per qualsiasi seria politica di riforma del mercato del lavoro passa dalle misure a vantaggio dell’occupazione femminile, visto che il gap occupazionale in Italia è intrecciato strettamente con il gap di genere.
La sensazione è che il mondo reale sia momentaneamente estraneo alla narrativa del Pd schiacciato a sinistra. Mai una parola sulle imprese che, fino a prova contraria, sarebbero i soggetti senza i quali non c’è creazione di ricchezza né creazione di nuovi lavori. Mai una parola sui settori strategici dell’economia italiana sui quali il governo è chiamato a rispondere proprio mentre il Pd si lambicca su questioni identitarie.
Tanto cuore, dunque, nella relazione dentro la Nuvola di Fuksas, ma applicare uno schema ideologico alla realtà per imbrigliarla non potrà funzionare. Se il nuovo Pd socialpopulista vorrà essere efficace e attrattivo – anche verso le cosiddette “fasce disagiate” – dovrà infine decidersi a scendere dalle nuvole.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).