Recuperare la sovranità nazionale: un’utopia reazionaria
L’utopia reazionaria dei nazionalpopulisti – recuperare sovranità nazionale attraverso il rifiuto dell’integrazione europea e della cooperazione internazionale -, risulta efficace agli occhi di cittadini che si sentono minacciati dalla globalizzazione e dai suoi effetti. Il ritorno alla “potenza” dello Stato nazionale sovrano appare a molti l’unica strada per recuperare padronanza sul presente e sul futuro loro e dei loro figli.
Molti di questi cittadini, in un passato non molto lontano, hanno dato credito all’ Europa e alla capacità del processo di integrazione di dare risposte efficaci alla domanda di diffusione del benessere e di maggiore sicurezza. Ma la prova fornita dalle istituzioni comunitarie- soprattutto durante la Grande Recessione – è stata deludente: anche i passi avanti compiuti sono stati “troppo poco, troppo tardi”.
Troppe iniziative di breve respiro, a fronte di grandi shock e di crescenti preoccupazioni a lungo termine.
In questo contesto, il riferimento dei riformisti all’Europa è apparso a molti vuota retorica: nella migliore delle ipotesi, la manifestazione di un’intenzione tanto buona quanto impotente. Il resto, lo hanno fatto i Governi nazionali, sempre pronti a scaricare sulle assenze, i ritardi e le sordità dell’Europa – reali o inventati sul momento che fossero – i limiti e le deficienze della loro azione.
In Italia, infine, hanno agito nello stesso senso gli effetti – simili a quelli di una guerra – della Grande Recessione: tra il 2007 e il 2014, sono stati persi 10 punti di Prodotto pro capite. Una caduta che ha prevalenti cause nazionali (il debito troppo alto; la produttività stagnante da 20 anni; le riforme strutturali troppo a lungo rinviate). Mentre i riformisti, nei tempi resi troppo stretti dalla rapidità della crisi, si sono mostrati incapaci di rimuoverle, i nazionalpopulisti sono stati fin troppo abili nell’approfittarne, trovando nell’establishment il colpevole.
Re-cuperare la sovranità “ceduta” dallo Stato nazionale all’Europa è così diventato l’asse della proposta nazionalpopulista.
Ma la sovranità è già “evaporata”
Ma la sovranità di cui si sente la mancanza non è stata “trasferita” ad istituzioni comunitarie in grado di esercitarla, con l’unica eccezione della politica monetaria, di cui è titolare la BCE guidata in questi anni dal Presidente Draghi. Per altre, decisive componenti della sovranità, si può invece dire che essa sia fuoriuscita dall’orbita della politica o addirittura “evaporata”: non è più dove era – presso lo Stato-nazione, influenzabile attraverso il voto e la mobilitazione sociale e civile -, ma non ha trovato sede nelle istituzioni comunitarie.
È così per il governo dei confini, che sono ormai i confini dell’Unione, ma non sono dalla stessa presidiati. È così per la politica di difesa e di sicurezza. È così per la politica fiscale, che deve “andare mano nella mano con la politica monetaria”, ma nell’Area dell’euro non può farlo, perché non agisce sullo stesso dominio territoriale. È così per larga parte delle politiche sociali, chiamate a far fronte agli effetti degli shock asimmetrici che ben possono determinarsi nel mercato unico…
Tutti sanno – anche i nazionalpopulisti – che si tratta di questioni che sfuggono al pieno dominio dello Stato-nazione, per l’evidente asimmetria tra dimensione del problema e dimensione del soggetto istituzionale chiamato ad affrontarlo.
Costruire la nuova sovranità europea
Ma senza la costruzione di una nuova sovranità europea – e dell’Area dell’euro in particolare -, la narrativa del populismo avrà la meglio. Non perché possa esistere un “europopulismo”, ma per la ragione opposta: il populismo può prevalere solo come nazionalpopulismo, sfasciando la – certamente imperfetta – costruzione europea.
I riformisti devono dunque avviare un processo concreto e tangibile di ricostruzione – alla dimensione dell’Area euro – della “potenza” della politica democratica. Cioè, della sua capacità di rispondere efficacemente alle domande di sicurezza e di benessere dei cittadini.
Domande che possono trovare nelle istituzioni locali, regionali, nazionali e comunitarie la sede per la definizione di risposte ad una scala adeguata alla natura del problema.
Una sicurezza esterna, in un mondo che si è fatto più pericoloso ed instabile di un tempo? Non possono provvedervi eserciti e servizi di intelligence nazionali, per i quali i singoli Stati membri dell’Unione spendono molto, senza ottenere risultati proporzionati ai sacrifici fiscali imposti ai cittadini per finanziarli. Si tratta di passare dal debole sforzo di coordinamento di oggi alla costruzione dell’embrione – con chi ci sta, a partire da Francia, Germania e Italia – dell’esercito europeo, da integrare nella Nato.
Per questa prospettiva – che ha per presupposto la costruzione di un’effettiva politica estera dell’Unione, della quale l’esercito è strumento – vale la pena di spendere, in rapporto al PIL di ciascun paese membro, più di quanto si spenda oggi. Anche perché risulterebbero evidenti le ricadute – in termini economici, industriali e scientifici – di questa maggiore spesa.
Una politica fiscale che risulti coerente con la politica monetaria della BCE? È del tutto irragionevole affidarne lo sviluppo ai singoli Stati membri, come si è fatto anche nel corso della Grande Recessione e si pretende di continuare a fare. Serve il bilancio dell’Area dell’euro
Tutti invocano, per l’Italia, l’adozione di una politica fiscale espansiva, capace sia di sostenere la crescita, sia di ridurre la disuguaglianza. Nel corso degli ultimi quattro anni, il “sentiero stretto” del ministro Padoan ha consentito di fornire alla crescita e al contrasto della povertà tutte le risorse compatibili con la stabilità della finanza pubblica. Ma questa politica è stata respinta dagli elettori. Anche perché i suoi risultati sono stati decisamente al di sotto di quelli necessari per recuperare ciò che si è perso, in termini di reddito e di equilibrio sociale, durante la Grande Recessione.
C’è una strada, tra il burrone del default prodotto da un forte innalzamento dell’indebitamento e, con esso, del debito pubblico e la rassegnazione a non far nulla, perché “non ci sono i soldi”: è quella di accendere, per una crescita più intensa e un netto miglioramento della qualità sociale, il motore europeo: il bilancio dell’Area dell’euro.
No. Non un rimpinguamento delle risorse dell’attuale bilancio dell’Unione. Ci vuole la politica fiscale dell’Area dell’euro. Un bilancio il cui equilibrio si consegua non solo allocando la spesa, ma anche allocando in modo diverso le entrate, in chiave anticiclica e di risposta agli shock simmetrici e asimmetrici.
Oggi è possibile: “Istituire il bilancio dell’Eurozona. Per la competitività, la convergenza, la stabilizzazione, a partire dal 2021”. è un passo del comunicato congiunto franco-tedesco dopo l’incontro di Meseberg. C’è voluto l’immediato intervento del governo gialloverde italiano, della destra nordeuropea e dell’Internazionale populista di Orban per impedire che finalmente prendesse corpo la prospettiva del Bilancio dell’Area euro: il Consiglio Europeo di giugno si è tristemente consumato sul non accordo in tema di immigrazione.
Il primario interesse nazionale italiano ad uscire finalmente dalla pur necessaria fase della richiesta di flessibilità per il bilancio nazionale, per entrare in quella, ben più promettente, della politica fiscale dell’area euro– in grado di sviluppare investimenti sufficienti sia al sostegno della domanda aggregata, sia all’innalzamento del potenziale di crescita -, ne è uscito umiliato.
Ma può e deve diventare un cardine della proposta alternativa dei riformisti, a partire dalle imminenti elezioni europee. Gli esempi della politica di difesa e della politica fiscale rendono evidente che quello che qui viene proposto è il contrario dell’europeismo astratto che la retorica nazionalpopulista ha schiantato, sino a far ritenere che “parlare di Europa” faccia perdere le elezioni.
Dobbiamo farci guidare dal principio dell’utilitarismo (non casualmente, una delle basi teoriche della liberaldemocrazia): il successo del progetto europeo stava anche nella immediata percezione – dopo le immani sofferenze della guerra – della utilità dell’Europa unita. La costruzione della sovranità europea che qui viene proposta è in grado di far tornare utile l’Europa agli occhi di milioni di cittadini.