di Pasquale Pasquino
A un po’ più di una settimana dall’aggressione alla sede del Congresso americano e ai suoi membri lo sviluppo degli eventi giustificano di tornare sul tema per coglierne le conseguenze e cercare di capirne gli sviluppi.
L’attacco a una delle istituzioni centrali della democrazia in America da parte di gruppi di estrema destra e di sostenitori di Trump non è stato certo, come avevo suggerito, né l’inizio di una guerra civile, né un reale tentativo di colpo di stato, se si considera fra l’altro la assenza di partecipazione e di consenso alla sommossa da parte delle forze armate. Spetterà alle corti di giustizia americane di qualificare il crimine commesso da coloro che hanno partecipato all’attacco, se si tratti di insurrection o di sedition e forse conspiracy, tutti crimini puniti severamente dalle leggi americane. Ciò che ha avuto luogo è stato in ogni caso di un atto senza precedenti – nel 1812 il Capitol fu invaso da soldati stranieri non da cittadini americani –, una aggressione che ha colpito la sede del Congresso e i suoi membri, cioè il cuore reale e simbolico di quella che i Padri Fondatori hanno chiamato la Republic, noi diciamo il governo rappresentativo, il regime politico vigente negli Stati Uniti da più di due secoli.
Non solo si tratta di un evento grave mai accaduto, ma di una aggressione a una componente essenziale dell’ordine costituzionale, incoraggiata da un Presidente in carica degli Usa. E con argomenti – si fa per dire – che mettono in questione la base di legittimazione di ogni democrazia rappresentativa: le elezioni.
Quello che sto sostenendo spiega anche il comportamento di una parte – vedremo in futuro quanto significativa – dei rappresentanti repubblicani, quelli che sembrano disposti a condannare Trump validando la procedura di impeachment votata dalla Camera dei rappresentanti, per la seconda volta nei confronti dello stesso presidente. Anche questo un evento senza precedenti.
Si è sostenuto da più parti, non senza argomenti, che avviare, come hanno fatto i Democratici, una procedura di messa in accusazione del presidente era poco ragionevole e probabilmente contro producente:
a) Perché il mandato di Trump era in scadenza ravvicinatissima e che quindi la possibile condanna da parte del Senato lo avrebbe espulso dalla sua carica troppo tardi, quando cioè non era più in funzione;
b) Perché avrebbe trasformato in martire un nemico dell’ordine costituzionale;
c) Tesi più sorprendente, perché quello che si rimproverava al Presidente era il semplice esercizio del diritto, molto ampio in America, del free speech.
Questi argomenti, peraltro di peso diverso, non sembrano condivisibili. Sul primo punto, come ha fatto osservare Larry Tribe, professore di diritto costituzionale ad Harvard, se è vero che una procedura di impeachment approvata dopo la scadenza del mandato non ha effetto sulla sua durata, essa vale però comunque come interdizione del soggetto impeached per quanto riguarda la possibilità di candidarsi e di esercitare uffici elettivi. Si potrà obiettare su questo punto che si tratta di un uso improprio e partigiano della procedura, perché si cerca in tal modo di squalificare un concorrente che gode ancora di largo sostegno popolare. E questo non solo da parte dei Democratici, come è ovvio, ma anche da parte del partito Repubblicano, diviso ormai fra coloro che non accettano la cattura del partito da parte di Trump, ma anche da chi, come Cruz o Hawley, spera di ereditarne l’elettorato nella competizione per le presidenziali del 2024 e vuole quindi liberarsi di lui.
Il problema a me non pare di per sé quello della condanna di Trump per quanto ha fatto: di questo si occuperanno i tribunali. Potrebbe finire come Al Capone, che fu condannato per crimini fiscali invece che per gli omicidi.
Credo invece che l’America non possa tollerare una sfida aperta alle sue fondamenta costituzionali, anche se deve pagare un prezzo per questo: l’ostilità dei fan di Trump. E per il partito Repubblicano la sua spaccatura.
Costui ha cercato da tempo, indipendentemente dagli accadimenti del 6 gennaio, di squalificare i risultati delle elezioni, regolarmente verificati secondo tutte le norme in vigore nei 50 stati dell’Unione. Ha cercato di imporre il principio di base di tutto il populismo antidemocratico secondo il quale non è la maggioranza (o la più grande minoranza) che decide ma il “popolo”, cioè i sostenitori, non importa quanto numerosi, del leader. Provando a rovesciare in tal modo quanto detto dai funzionari dell’amministrazione che hanno insistito sul principio che numbers do not lie, e insistendo contro ogni evidenza che i numeri invece non contano. E che vale invece il suo “popolo” contro la maggioranza.
Ed è questo che la società americana non deve tollerare se vuole difendere la sua costituzione.
Pasquale Pasquino, nato a Napoli nel 1948, è Director of Research al French National Center for Scientific Research (CNRS) nonché docente di Politics and Law alla New York University. Dopo gli studi di filologia classica, filosofia e scienze politiche ha pubblicato ricerche sulla storia delle idee relative allo Stato e alle costituzioni. In anni recenti la sua ricerca si è concentrata sulla giustizia costituzionale in una prospettiva costituzionale. In passato ha lavorato presso il Max Planck Institute di Göttingen, il Collège de France e il King’s College di Cambridge.