Intervista a Giorgio Tonini di Pierluigi Miele, RaiNews
Senatore Tonini, lei è stato un protagonista nella nascita del PD (ha ricoperto incarichi importanti nel partito e in parlamento). Dal 2018 si è ritirato dalla scena nazionale e si è impegnato nelle istituzioni dell’autonomia speciale del Trentino Alto Adige. Con lei vorremmo approfondire le ragioni di una sconfitta storica come quella subita dal PD alle ultime elezioni. Intanto vorremmo capire, per iniziare, qual è stata “l’alchimia” che in Trentino si è prodotta per arrivare ad un accordo, che si è rivelato vincente, in netta controtendenza rispetto al dato nazionale.
Se per “campo largo” si intende un’alleanza del Pd, sia col “centro” di Calenda e Renzi, sia con la “sinistra” di Conte, questo miracolo non si è verificato neppure in Trentino. Noi siamo riusciti “soltanto” ad evitare la divisione più assurda e suicida, quella tra Pd e centristi. E abbiamo potuto farlo solo al Senato. Gli ingredienti decisivi di questa positiva “alchimia” sono stati due.
Ce li spieghi.
Innanzitutto, l’autonomia speciale della nostra Regione, che ci ha regalato, almeno al Senato, una legge elettorale diversa. Noi abbiamo continuato ad eleggere i sei senatori del Trentino Alto Adige con il glorioso “Mattarellum”, che da noi non è mai stato superato. Se non con l’eliminazione, a seguito della riduzione dei parlamentari, del settimo senatore, che era poi il cosiddetto “miglior perdente”. Quindi da noi si è votato col maggioritario secco, di collegio, all’inglese: il primo che arriva viene eletto, tutti gli altri restano a casa. Mentre nel resto d’Italia, la maggioranza dei parlamentari veniva eletta col proporzionale, da noi, almeno al Senato, il proporzionale semplicemente non c’era. Questo dato “tecnico” ha spinto a trovare accordi tra le forze vicine, tanto più in quanto il risultato nostro era ininfluente sulla cifra proporzionale nazionale dei partiti. Quindi abbiamo presentato candidati comuni nei tre collegi del Trentino (e, in maniera diversa, anche in quello di Bolzano), eleggendo il senatore di Trento e quello di Bolzano e mancando per una manciata di voti (200) l’elezione della nostra candidata a Rovereto. La destra si è fermata a due eletti (Rovereto e Valsugana) e gli altri due (Merano e Bressanone) sono andati alla Svp. Quindi, nella nostra Regione, al Senato la destra ha dovuto accontentarsi di due eletti su sei. Al netto dei collegi “tedeschi”, abbiamo pareggiato (2-2) ed era a portata di mano il 3-1 per noi. Alla Camera, con lo schema nazionale, sempre al netto della Svp, è finita 3-1 per loro.
E il secondo ingrediente?
La politica. La buona pratica del lavorare insieme, con un Pd che ha saputo esercitare una funzione dialogica, di inclusione e di coesione, mettendo da parte un malinteso orgoglio di partito e lavorando con umiltà per la coalizione, nella consapevolezza che se la coalizione è forte e vincente si rafforza anche il Pd. Come in effetti è stato. Un lavoro che dopo le sconfitte del 2018 (alle politiche in primavera e alle regionali in autunno) ha costruito risultati opposti alle amministrative del 2020, con la vittoria del centrosinistra plurale, aperto, autonomista, civico, in quasi tutti i centri maggiori, a cominciare da Trento e Rovereto. E che, dopo la conferma di queste elezioni politiche, speriamo ci porti, l’anno prossimo, a riconquistare il governo della Provincia autonoma e della Regione.
Passando al quadro nazionale, qual è stata, secondo lei, l’immagine che il PD ha dato di sé nella campagna elettorale?
Visto da lontano e dalla periferia del profondo Nord, quella di una contraddizione in termini: un partito riformista, un partito di sinistra di governo, privo di una proposta di governo, anche perché privo di una strategia politica che rendesse anche solo possibile la sua affermazione. Non abbiamo potuto (o saputo) presentarci agli italiani proponendo la continuazione del governo Draghi, con la sua persona e la sua agenda, peraltro apprezzate entrambe da una larga maggioranza di italiani, che invece non ha potuto trovare questa opzione sulla scheda elettorale. Ma non abbiamo potuto (o saputo) neppure far succedere alla stagione del governo Draghi una proposta nuova, che avesse una base di consenso politico sufficientemente ampia da risultare competitiva. E quindi ci siamo ridotti a parlare solo “contro”, sia gli avversari che gli alleati perduti, e la nostra campagna elettorale ha trasmesso più che altro la recriminazione per una sconfitta data già per inevitabile.
Veniamo alle ragioni della sconfitta. Al di là del mancato accordo tra i vari “pezzi” del centrosinistra (che non va imputato a Letta) qual è stata, secondo lei, la radice più profonda della sconfitta? Massimo Cacciari, intellettuale vicino alla sinistra, ha parlato di “catastrofe mentale” dei dirigenti PD. Condivide?
Non sono Massimo Cacciari e non mi piacciono i giudizi sprezzanti sulle persone. Stimo Enrico Letta, ho apprezzato e condiviso i contenuti della sua lettera agli iscritti e alle iscritte al Pd e la proposta di Congresso costituente. Gli sono anche grato per aver non solo consentito, ma sostenuto e favorito, la nostra “felice anomalia” trentina. Penso anche che l’ultima cosa che il Pd debba fare oggi sia quella di cercare un capro espiatorio, trovarlo nel segretario e pensare di bruciare con lui, come si fa a Capodanno, gli errori e i limiti di noi tutti. Spero che noi tutti riusciamo a restare lucidi, a guardare in faccia i nostri problemi, ma anche i punti di forza che ci sono e dai quali possiamo ripartire. La causa della sconfitta è stata la divisione del nostro campo. Se si fosse votato con un sistema completamente proporzionale, la destra non avrebbe avuto i voti per governare, perché non è maggioranza nel Paese. Oggi ha i seggi per farlo, grazie al fatto che le tre anime della loro coalizione, pur divisissime tra loro su questioni di fondo, hanno saputo presentarsi unite nei collegi uninominali, mentre le nostre tre, che pure hanno governato insieme per quasi tutta la legislatura, si sono presentate in ordine sparso, regalando la vittoria agli avversari. Un suicidio collettivo, con l’aggravante dei futili motivi. L’emblema di questo disastro è il collegio di Roma centro, la famosa ztl roccaforte della sinistra, dove Carlo Calenda si presenta contro Emma Bonino, entrambi finiscono a terra e il candidato della destra passa in scioltezza. Questo trionfo di stupidità collettiva deve essere fermato e solo il Pd può farlo, riprendendo con pazienza e tenacia il filo di una proposta unitaria per il governo del Paese.
Osservando i flussi di voto il PD ha lasciato per strada molti dei suoi elettori “‘tradizionali” (vedi gli insegnanti, anche i ceti professionali della Ztl, i giovani, per non dire degli operai, ormai sempre più attenti alla destra, e i deboli (spostati verso i 5STELLE)). Non le fa impressione che un partito, figlio delle migliori tradizioni riformiste, non sia stato capace di parlare a loro? Perché alcuni di “loro” si sono rivolti a FdI e 5stelle? Qual è stata la loro arma più forte?
Sì, certo che mi fa impressione. Per usare la fortunata immagine usata quarant’anni fa da Claudio Martelli alla Conferenza di Rimini del PSI, il Pd oggi fatica a rappresentare sia il merito che il bisogno, sia i ceti emergenti che quelli disperati, sia i giovani eccellenti, che per trovare il giusto riconoscimento dei loro talenti devono andare all’estero, sia i giovani neet, senza arte né parte, ridotti a sperare solo nel reddito di cittadinanza. Non a caso, il Pd ha perso su entrambi i fronti. I giovani (e non solo) più forti e competitivi, soprattutto al Nord, hanno preferito Calenda e Renzi. E i giovani (e non solo) più fragili e soli, numerosi soprattutto nel Mezzogiorno, hanno sentito più sensibili al loro grido di dolore i Cinquestelle di Conte. Questa doppia emorragia può dissanguare e uccidere il Pd. Ma anche condannare un centrosinistra strutturalmente e polemicamente diviso al suo interno ad un destino minoritario e subalterno. Senza una forza riformista che svolga la sua funzione, quella di costruire un’alleanza per il cambiamento, tra il merito e il bisogno, il nostro campo si ridurrebbe allo scontro permanente e sterile tra un centro tecnocratico e una sinistra populista.
Adesso si andrà al Congresso, la prossima settimana è convocata la Direzione che stabilirà le tappe congressuali. Per qualcuno dovrà essere un congresso di scioglimento per fondare una cosa nuova , per altri invece dovrà essere un congresso che ridia identità al PD. Lei dove si colloca?
Come ho detto, condivido la proposta di Letta. Dobbiamo far scaturire il nuovo gruppo dirigente da un confronto alto, che nutra l’ambizione di mettere in campo un pensiero condiviso sulla società italiana e sul ruolo del riformismo. Solo così potremo uscire dalla trappola del gioco a somma zero dei veti incrociati, che ha condannato il centrosinistra alla sconfitta e aperto le porte ad una destra tutt’altro che invincibile: sia sul piano degli orientamenti di fondo, incerti e confusi, sia su quello della qualità delle proposte, in larga misura demagogiche e inattuabili, sia su quello dei consensi, dove non si è verificato nessuno sfondamento, ma una mera, per quanto spettacolare, redistribuzione interna al loro campo, insieme ad una meritoria capacità di unire le forze mentre il nostro campo si dilaniava in una incomprensibile guerra fratricida.
Nel frattempo ci sarà da organizzare una opposizione. Anche qui non sarà facile, visto che l’opposizione è composta da tre forze, ciascuna con i propri obiettivi. Che tipo di opposizione?
L’opposizione, nella democrazia dell’alternanza, è un governo che si prepara a sostituire, battendolo alle elezioni, il governo in carica. Pd, centristi, Cinquestelle: non siamo stati capaci di costruire un pensiero comune sulla società italiana mentre governavamo insieme, prima con Conte e poi con Draghi. Dovremo farlo mentre stiamo, insieme, all’opposizione. E il Pd che, in forza del suo ruolo, ha le maggiori responsabilità, oggettive se non soggettive, del mancato incontro dal governo, ora ha la responsabilità primaria di ritrovare il filo del dialogo e della collaborazione, dall’opposizione. In Germania governa un centrosinistra a tre punte: Spd, Verdi e liberali. Lo ha reso possibile la capacità di evolvere di tutte e tre queste forze. Lo stesso coraggio devono dimostrare ora tutte e tre le punte del centrosinistra italiano. E spetta al Pd la responsabilità di promuovere e guidare questo processo.