di Carlo Fusaro*
Oggi Roberto Ruffilli avrebbe appena ottant’anni! Sarebbe certamente fra noi a rilanciare la strategia delle riforme istituzionali di cui fu protagonista e che indusse le Brigate Rosse a pronunciarne ed eseguirne la condanna a morte, dieci anni dopo Moro.
Fu assassinato a Forlì sulla porta di casa, del tutto inerme. Cose così sono successe in Italia con impressionante frequenza per quasi 15 anni e non ce lo dovremmo dimenticare mai: anche quando piagnucoliamo sulle difficoltà attuali, anche quando ci lasciamo andare a recriminazioni e nostalgie per la c.d. Prima repubblica.
No: furono anni feroci che chi è nato dal 1975 in qua non può nemmeno immaginare. Anche per questo sento come un dovere rendere omaggio a Ruffilli e agli altri eroi involontari di quel periodo, e portare qualche testimonianza personale.
Due anni prima avevano assassinato sempre inerme e ovviamente senza scorta l’ex Sindaco di Firenze Lando Conti, repubblicano. Quando Ruffilli fu ucciso, avevo già visto morire lui Lando Conti, e il collega di Facoltà Ezio Tarantelli, economista. Tutti riformisti, pur di diversa ispirazione.
Fa benissimo il capo dello Stato, che gli fu vicino, a partecipare alla solenne – doverosa – commemorazione di oggi a Forlì.
Ruffilli era colui che nella Dc, per conto del segretario De Mita, seguiva le riforme istituzionali appunto: s’era agli inizi di un percorso che sarebbe durato fino ai giorni nostri: e che anzi – anche se di strada se n’è fatta – è rimasto incompiuto.
Incompiuto proprio per l’aspetto chiave: attribuire ai cittadini il potere non solo di eleggere i propri rappresentanti, ma anche di indicare maggioranza, programma, leader. Di decidere col proprio voto – di norma – da chi essere governati.
Eletto senatore nel 1983, Ruffilli (un professore universitario, allora 46 enne) cercò con enormi difficoltà (e qualche successo) di tessere le fila dei rapporti fra i partiti dell’epoca e dare sbocco positivo alla Prima Commissione bicamerale per le riforme istituzionali, quella presieduta dal liberale costituente Aldo Bozzi (1983-1985). Responsabile del dipartimento “Stato e istituzioni” della DC proseguì poi quell’impegno e pubblicò due raccolte di scritti riformatori di cui il secondo riassume l’obiettivo di fondo del quale parlavo: “Il cittadino come arbitro…”.
Siamo ancora lì: ci siamo arrivati vicino a quell’obiettivo, e poi – improvvidamente – ce ne siamo di nuovo allontanati. Adesso ne paghiamo le conseguenze.
Conobbi Ruffilli proprio durante i lavori della Commissione Bozzi. In particolare fui al fianco di Adolfo Battaglia (allora capogruppo PRI alla Camera) che condusse insieme con Ruffilli (e con Gitti, Dc e con Covi, Pri) il tentativo di raccogliere una larga maggioranza che coinvolgesse il PCI in un documento finale unitario. Nel PCI agiva da protagonista del tentativo Augusto Barbera; ma il suo partito era diviso, le difficoltà notevoli e poi le contrapposte rigidità del PSI impedirono che lo sforzo di Ruffilli e Battaglia fosse coronato da successo: a decenni di distanza si può ben dire che a quel modulo comportamentale (opposte rigidità che alla fine fanno deragliare le intenzioni migliori e impediscono – per una ragione o per l’altra: ce n’è sempre una – sbocchi utili) la democrazia politica italiana non è mai, mai!, riuscita a sottrarsi.
Era mite e simpatico, oltre che molto bravo, Roberto Ruffilli, autentico romagnolo. Gli italiani hanno contratto un debito enorme nei suoi confronti (oltre che prima di tutto con se stessi): io continuo a sperare e a lavorare perché un giorno possiamo finalmente onorarlo.
*Professore ordinario di Diritto elettorale e parlamentare – Università di Firenze