LibertàEguale

Un buon lavoro per tutti

di Marco Leonardi

 

(intervento all’Assemblea nazionale di Libertà Eguale – Orvieto, 28-29 settembre 2019)

 

1- Il disegno e l’impatto del Jobs Act 

Rivedere la narrazione del Jobs Act: migliorare gli strumenti, non tutti rivelatisi efficaci, con i quali è stata implementata; ricostruire una narrazione che recuperi il taglio inclusivo e universalistico del suo disegno originario.

La riforma ha ampliato la platea degli aventi diritto ai sussidi di disoccupazione, nonché allungato il periodo massimo di fruizione degli stessi, da dodici a ventiquattro mesi.

ll Jobs Act è l’ultima riforma del lavoro dopo una lunga serie: Treu (1995), Biagi (2003), Fornero (2012). In molti paesi europei a partire dagli anni ’90 si sono susseguite riforme del lavoro che hanno poi dato luogo ad un mercato del lavoro duale. I costi della flessibilità erano scaricati soltanto su una fascia di lavoratori, a partire dalle generazioni più giovani, aumentando il dualismo tra i lavoratori a tempo indeterminato e tutti gli altri. Il Jobs Act è la prima riforma del lavoro che rovescia questo paradigma e agisce sui costi di licenziamento dei contratti a tempo indeterminato incentivando contemporaneamente le transizioni da contratti a tempo determinato a indeterminato e riducendo il dualismo del mercato del lavoro.

Il mercato del lavoro nel secondo trimestre 2018 ha registrato un numero di occupati migliore di sempre, superiore a quello di 10 anni fa prima dell’inizio della grande crisi. Il tasso di occupazione è tornato oltre al 59% (anche se non tutte le regioni d’Italia hanno recuperato i livelli pre 2008 e le ore lavorate sono ancora sotto il livello del 2008) e le donne che lavorano sono il 6% in più rispetto al 2008. Il numero di occupati a tempo indeterminato è arrivato a quasi 15 milioni di unità anche se nell’ultimo anno abbiamo visto un aumento molto grosso dei contratti a termine. Tutto questo a fronte di un PIL che purtroppo non è tornato ancora ai livelli del 2008. Certo non è tutto merito del Jobs Act però la riforma del lavoro ha certamente accompagnato questa crescita. Al momento del cambio di governo nel giugno 2018, questa era l’eredità. Un’eredità molto buona dal punto di vista dei risultati ma scomoda dal punto di vista politico per la forte caratterizzazione “ideologica” di quella legge.

 

2- Il decreto dignità: impianto e conseguenze

Il primo attacco al Jobs Act è stato portato attraverso il decreto Dignità. Il governo Conte aveva l’intenzione giusta di ridurre l’uso dei contratti a termine (naturale complemento del Jobs Act che vuol favorire i contratti a tempo indeterminato a discapito di quelli a termine), ma ha commesso un errore di impianto: per la foga di distruggere il Jobs Act non ha considerato l’efficacia della norma. Invece di usare gradualità nella riduzione dei contratti a termine, ha utilizzato “il cannone” riducendo le durate e le proroghe possibile per i contratti, aumentando i costi e mettendo le causali (dopo 12 mesi). L’obbligo di una causale dopo i 12 mesi di contratto ha creato, oltre a un immediato aumento del contenzioso, anche un problema di rinnovo del contratto per centinaia di migliaia di persone (ogni anno si aprono più di 2 milioni di contratti a termine).

Contemporaneamente (e questo è l’errore di impianto più rilevante), invece di incentivare le trasformazioni in contratti a tempo indeterminato, le ha ostacolate alzando i costi di licenziamento. La logica vuole che a limiti così drastici per i contratti a termine sarebbero dovuti seguire “scivoli” assai generosi verso i contratti a tempo indeterminato, ma così non è stato. Invece di abusare di causali e di aumenti del costo del lavoro, la strategia giusta per ridurre la precarietà sarebbe stata quella di introdurre limiti graduali alle durate e alle proroghe dei contratti a termine e allo stesso tempo ridurre permanentemente i costi dei contratti a tempo indeterminato. Il decreto dignità si è limitato a confermare gli sgravi contributivi per le assunzioni dei giovani sotto i 35 anni del governo Gentiloni (che comunque incentivano ben 120 mila contratti annui) mentre la riduzione permanente dei costi di assunzione a tempo indeterminato arriverà sperabilmente solo con questo nuovo governo giallo-rosso un anno e mezzo dopo la messa a regime del decreto dignità.

Come è andato il mercato del lavoro in questo anno e mezzo? Tutto sommato poteva andare peggio. Nonostante la caduta secca della crescita del PIL che improvvisamente dal 1.7% del 2017 è crollato a 0% negli ultimi due trimestri del 2018 e nel primo del 2019, la crescita dell’occupazione ha rallentato ma ha sicuramente tenuto: oggi il numero degli occupati è il maggiore di sempre e le stabilizzazioni dei contratti a termine sono aumentate (come era prevedibile avendo limitato i contratti a termine sostanzialmente a 12 mesi).

Tuttavia l’Inps ci comunica solo il lato migliore del decreto dignità cioè l’aumento delle stabilizzazioni ma si dimentica di informarci sull’altro inevitabile lato del decreto dignità: il maggior turnover di lavoratori a termine nelle liste di disoccupazione. Purtroppo l’Inps non fornisce i dati su quanti lavoratori a termine non sono rinnovati e ogni mese finiscono a prendere i sussidi di disoccupazione. Eppure noi sappiamo per certo che il flusso di lavoratori con contratti a termine nelle liste della disoccupazione è aumentato perché la Banca d’Italia ci dice che la probabilità di lavoratori a termine di essere disoccupati ad un anno dalla scadenza del contratto è aumentata.

Un’altra conseguenza del decreto Dignità (e una vera eterogenesi dei fini) è che le imprese soprattutto medio-piccole, incapaci di affrontare la burocrazia e il costo di dover selezionare nuovi lavoratori a termine ogni 12 mesi, si affidano piuttosto alla odiate agenzie di somministrazione, proprio quelle multinazionali che i 5 Stelle nella prima versione del decreto Dignità volevano far addirittura chiudere imponendo loro dei vincoli impossibili da rispettare. Al netto del ciclo economico il lavoro in somministrazione e a chiamata è rimasto stabile ai livelli più elevati di sempre dopo l’eliminazione dei voucher nel marzo 2017. Un dato positivo è che i lavoratori somministrati sono sempre più assunti a tempo indeterminato (staff leasing).

In conclusione il decreto dignità, diversamente dal Jobs Act che aveva fortemente sussidiato le assunzioni, ha soltanto influenzato la composizione a favore del tempo indeterminato senza poter incidere su due tendenze di lungo periodo del mercato del lavoro: la tendenza alla riduzione delle ore di lavoro procapite cui si accompagna la diffusione del lavoro part time e la demografia che induce un amento dell’occupazione nelle fasce più anziane dei lavoratori (gli over 55).

 

3- Occupazione giovanile: serve la riforma strutturale della istruzione terziaria

Queste tendenze sono comuni a tutti i paesi: tutti i cambiamenti nel tasso di occupazione di Francia Germania e Italia se considerati negli ultimi 20 anni sono avvenuti esclusivamente nella fascia di lavoratori anziani. L’aumento dell’età pensionabile ha aumentato i tassi di occupazione dei lavoratori over 55 mentre le differenze nei tassi di occupazione dei giovani tra questi tre paesi sono rimaste intatte (tassi molto elevati in Germania e molto bassi in Francia e Italia): sono i tassi di occupazione giovanile a giustificare le differenze nei tassi di occupazione totale tra paesi. Questa è la ragione per cui è necessaria in Italia una riforma strutturale del sistema di istruzione terziaria che possa avvicinarci al sistema duale tedesco che garantisce tassi i occupazione giovanili così alti.

a) Cambiarne il nome con Scuole Superiori Politecniche o con altra denominazione che rafforzi il prestigio verso le famigli e i giovani (che tendono a privilegiare la laurea)

b) Ridefinire divisione del lavoro e integrazione fra i canali formativi: l’Università che forma specialisti, manager, architetti di sistema; l’ITS i tecnici integratori. Sospendendo un ultradecennale contrasto da parte delle Università

c) Riattivare la esistente ‘passerella’ che consente ai diplomati dei corsi ITS l’acquisizione di crediti riconosciuti dalle Università e quella di prevedere una nuova “passerella” fra Università e ITS che faciliti l’assorbimento negli ITS di parte degli studenti che abbandonano l’Università (il 20% dopo un anno, il 39% dopo due anni, il 45,2% dopo tre anni)

d) Potenziare il coordinamento fra MIUR, MISE, Ministero del Lavoro , Regioni a rafforzare il coordinamento fra gli attuali troppi tavoli. Federico Butera e Andrea Illy in un articolo sul Sole 24 Ore del 12 aprile 2017 avevano proposto una situation room per fare questo.

e) Rafforzare strutturalmente il sistema ITS assegnando risorse maggiori a livello nazionale e regionale, dando omogeneità e chiarezza normativa, assicurando stabilità di finanziamenti pluriennali; costituendo costituire una Direzione dedicata presso il MIUR

f) potenziare i servizi alle imprese e al sistema scolastico per attivare e gestire le Fondazioni ITS e i relativi progammi

g) potenziare la comunicazione alle famiglie e agli studenti.

h) promuovere la partecipazione delle imprese . Occorre far conoscere alle imprese piccole e medie l’ITS: il suo approccio, i suoi vantaggi, i suoi costi e benefici. Solo una minoranza di imprese sanno cosa sono gli ITS. Promuovere incentivi economici, normativi, di immagine che spingano un numero molto più elevato di imprese a partecipare sia all’ITS che alle lauree professionalizzanti;

 

4- Lavoro e trasformazione tecnologica

Contrariamente alla narrazione sulla disoccupazione tecnologica, i tassi di disoccupazione sono in riduzione nella maggior parte dei paesi sono in diminuzione.

E anche la narrazione sulla precarietà del lavoro e sull’instabilità del posto di lavoro non sono verificate nei dati, la percentuale di persone su contratti a termine e la percentuale di lavoratori nel posto di lavoro da meno di un anno è stabile nel tempo. Per questa ragione non è il caso di investire il prossimo anno in infinite discussioni sull’articolo 18 mentre è urgente concentrarsi sui problemi lasciati aperti negli ultimi anni: salari, formazione e politiche attive.

Quindi tutto bene? Ovviamente no.

Il dibattito di oggi sul mercato del lavoro si concentra sulle conseguenze delle trasformazioni tecnologiche: è realistico invece ipotizzare uno scenario di profonda trasformazione dei vecchi mestieri tradizionali. Di qui l’importanza delle politiche attive volte a gestire la transizione da un posto di lavoro all’altro e la formazione e riqualificazione dei lavoratori; di qui anche la necessità di stabilire regole chiare su quando un’azienda e quindi i suoi posti di lavoro meritano di essere salvati e quando invece è meglio un sussidio di disoccupazione che non ti tenga legato all’azienda di origine ma ti permetta di avere un reddito mentre cerchi un nuovo lavoro.

Certamente c’è un problema di crisi della manifattura (dove la produttività è alta) e di riqualificazione e ricollocazione dei lavoratori di quel settore. E le politiche attive sono rimaste un punto debole.

 

5- Le politiche attive del lavoro: la grande incompiuta

Nonostante l’ultima legge di bilancio abbia allargato l’assegno di ricollocazione anche ai cassaintegrati per facilitare la soluzione delle crisi d’impresa, le politiche attive rappresentano la grande incompiuta del Jobs Act. La bocciatura del referendum del 4 dicembre 2016 ha confermato la competenza regionale sulle politiche attive e ha rallentato molto il processo. Le regioni hanno ottenuto che l’implementazione dell’assegno di ricollocazione nazionale fosse preceduta da una sperimentazione su un campione limitato di beneficiari. La sperimentazione, tra le altre cose, avrebbe dovuto permettere di approntare il sistema informatico di gestione della nuova misura nazionale e la messa a punto della sua compatibilità con le misure regionali di politiche attive. Tuttavia la sperimentazione dell’assegno, condotta su 30.000 individui che hanno ricevuto una lettera di invito ad accedere alla misura, ha avuto risultati poco incoraggianti: delle circa 30.000 persone invitate solo il 10% ha richiesto la misura e il 20% di quelli che l’hanno richiesta è stata ricollocata (percentuale che sale al 29% se contiamo i rapporti di lavoro molto brevi, che però non danno diritto all’assegno). Tale risultato obiettivamente deludente tuttavia non ci deve indurre a desistere, anche perché la sperimentazione si è scontrata contro chiari problemi di scala, di informazione e di messa a sistema che il passaggio a regime della misura dovrebbe essere in grado di superare.

Ora il rischio di fare passi indietro è altissimo: il rapporto Stato-Regioni è rimasto il problema numero uno per lo sviluppo delle politiche attive sul territorio nazionale. Il governo Conte ha mostrato grande diffidenza verso le politiche attive del lavoro e delle agenzie private del lavoro (con i solli CPI non si va lontano i centri dell’impiego, che non posseggono né le professionalità né i contatti con le aziende) e il desiderio di tornare alla cassa integrazione. Di questo passo non recupereremo mai il ritardo che ancora ci connota rispetto agli altri paesi europei.

Il rischio più grosso è che la strategia del governo preveda da una parte la rinuncia ad ANPAL e al suo ruolo di coordinamento e dall’altra la devoluzione di tutte le competenze alle regioni.

I tentativo fallimentare di introdurre i Navigator con contratti nazionali superando così le competenze regionali dimostra che la strada è in salita. Ora bisogna evitare il rischio che il fallimento di RDC si porti via sia politiche attive sia lotta a povertà.

 

6- Salario minimo: un tema di sinistra

Il salario minimo era nella delega parlamentare del Jobs Act (ancor prima nella legge n.92 del 2012), non se ne fece nulla perché i rapporti con i sindacati erano già deteriorati dall’anno del Jobs Act e perché si avvicinava il referendum costituzionale per cui si volevano minimizzare gli attriti con le parti sociali.

Il salario minimo è certamente un tema di sinistra che va affrontato a mio parere anche senza troppi giri di parole. Bene il rispetto dell’autonomia delle parti sociali nei contratti collettivi ma l’operazione sul salario minimo deve portare a un aumento concreto e visibile dei salari. Non sarebbe concepibile dal punto di vista politico un’operazione che risultasse in una difesa delle prerogative sindacali in un’Italia che ha i livelli di salario reale della fine degli anni ’90 e che ha perso 20 anni di crescita dei salari reali.

L’operazione salario minimo va fatta quindi in maniera che magari non ci sia una cifra nella legge ma ci sia la costituzione di una commissione che -come in tutti i paesi in cui si è introdotto il salario minimo- rapidamente porti a fissare una cifra sotto la quale non può scendere nessun contratto collettivo. La stagnazione dei salari è un problema che si rileva in molti paesi ma in Italia ha preso una forma patologica.

La letteratura economica la attribuisce spesso all’aumento delle concentrazioni di aziende e all’aumento del loro potere di mercato che si traduce in minori salari; credo che in Italia il problema riguardi non tanto il potere di mercato delle multinazionali quanto piuttosto il potere contrattuale molto elevato che hanno i datori di lavoro in aziende molto piccole in assenza del sindacato.

 

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