LibertàEguale

Un “campo largo” con i populisti? No grazie

di Alberto De Bernardi

 

Goffredo Bettini, Il vero capo politico e ideologo della mozione Zingaretti, ha dato la linea per questa fase conclusiva delle primarie, mettendo in evidenza le discriminanti politiche fondamentali della futura segreteria del presidente del Lazio in un articolo sul “Fatto quotidiano”.

 

Il populismo ‘buono’ del M5s

La prima riassume quello che i fiancheggiatori di Zingaretti vanno dicendo da sempre.

Lo dicono Repubblica – che è il vero “partito” che sostiene Zingaretti – e alcuni intellettuali da talk show di complemento come Cacciari, insieme a tutta la vecchia guardia ex Pds dentro e fuori il Pd e gli ultimi estenuati reduci del prodismo, come Monaco o Letta: non esiste un campo populista nel quale stanno sia la Lega che il M5S, ma in realtà esistono due aree distinte, quella populista rappresentata dal reazionario Salvini e quella antipolitica rappresentata da Di Maio.

La prima va combattuta; la seconda invece – proprio ora che sta entrando in crisi – va ascoltata, capita, magari assecondata perché lì “c’è il nostro popolo”. Con questi elettori ora in libera uscita e che potrebbero tornando all’ovile, bisogna creare un “campo largo di forze” che tolgano ossigeno alla destra sovranista.

 

Il M5s è il vero campione del populismo

Questa analisi è del tutto infondata come emerge in tutta evidenza non solo dalle pratiche di questo governo, ma dall’ideologia stessa del movimento della Casaleggio associati: il M5s è il vero campione del populismo, che unisce in una prospettiva di scontro aperto con la democrazia liberale, l’europeismo e la società aperta elementi di destra e di sinistra, “antisistema” ( basti pensare al No Tav) ma anche conservatori e nazionalisti ( dalle chiusure dei negozi la domenica al reddito di cittadinanza solo agli italiano, al No Euro), in perfetta continuità con la natura del fenomeno populista che ha attraversato tutto il XX secolo.

Ho più volte scritto su Libertà Eguale che la contrapposizione tra popolo, inteso come monolite deprivato e subalterno, e le élites intese come “comitato d’affari” opaco e chiuso, è la quintessenza del populismo e che questa contrapposizione non ha nessuna correlazione con quella tra le classi tanto cara alla tradizione socialcomunista. Il M5s non ha nulla in comune con una sinistra liberale e progressista di stampo europeo; da molti punti di vista sono molto peggio della Lega, che rappresenta una destra nazionalista e xenofoba tutto sommato tradizionale.

 

In un vicolo cieco

Non accorgersi di questo profilo e scambiare il M5S per un movimento popolare “anticasta” sostanzialmente di sinistra, che è stato costretto all’alleanza con la Lega dall’errore di Renzi di chiudere ogni rapporto all’indomani della sconfitta elettorale, figlio della sua “boria” e della sua ”arroganza”, conduce però in un vicolo cieco. Infatti, mentre si dice che non c’è spazio per una alleanza politica con il movimento grillino, si afferma che il reddito di cittadinanza è una proposta condivisibile – un reddito di “emergenza” per chi soffre (ma che vuol dire?), in attesa delle riforme strutturali che verranno -. Cioè si fanno propri i capisaldi ideologici del movimento trasferendoli all’interno del “campo grande” della sinistra per richiamare al suo interno le presunte praterie di voti di sinistra che hanno votato Di Maio il 4 marzo 2018.

 

“Voltare pagina” vuol dire tornare alla dissipazione consociativa

E’ una costruzione di pensiero barocca e fumosa da cui si evince una cosa sola: che il populismo è entrato dentro di noi – altro che rottamazione renziana – spingendoci a ritenere che dare un po’ di assistenzialismo al di fuori di politiche di sviluppo rimandate alle calende greche sia il fulcro della ricostruzione della sinistra, che percorre con il vento in poppa le praterie abitate dai suoi elettori. “Voltare pagina” è in realta ritornare a quell’Italia consociativa di fine novecento della dissipazione delle risorse pubbliche, della distribuzione di redditi clientelari in sostituzione del lavoro che non si è capaci di creare, del rinvio programmatico di ogni effettiva riforma del sistema. D’altronde l’opposizione al Job Act o alla Buona scuola qui affondava le sue radici: Bettini non scopre nulla, toglie soltanto il velo a tante ipocrisie che hanno ammorbato l’aria nel Pd per cinque anni.

La proposta di Bettini è semplicemente un ripiegamento tattico per non perdere i voti di molti elettori che sono contrari all’alleanza con i 5S, pur mantenendo salda la strategia di un rapporto con loro come unica proposta politica effettiva, nascondendola dietro esercizi verbali “politicistici”, che però non cambiano la sostanza: c’è un fondamento ideale comune tra gli elettori del 5s e il Pd di Zingaretti che si chiama assistenzialismo e statalismo. In nome di questa prospettiva si sta muovendo la vecchia guardia ex comunista ex democristiana, la vecchia Italia consociativa (D’Alema ha riscoperto l’“appoggio esterno” del Pd a un governo 5s!), il gotha del giornalismo dei salotti televisivi, in nome di una retorica ulivista da lanciare contro il Pd di Veltroni e Renzi, riformista, maggioritario, anticonsociativo.

 

La divisione dei riformisti non aiuta

Purtroppo il fronte avverso a questa prospettiva ha fatto una scelta suicida, dividendosi e sostenendo maggioritariamente la candidatura di Martina, in nome del “male minore” che consentiva di allontanarsi da Renzi, ritenuto una via di mezzo tra una “boccia persa” e un pericolo da esorcizzare, senza cadere nelle fauci del Pds 2.0 di Zingaretti: una via di mezzo che però si è rivelata debole e asfittica soprattutto dopo l’entrata in campo di Giachetti/Ascani che hanno mobilitato il corpo vivo del Pd – io penso e mi auguro anche dell’elettorato delle primarie – che si è sentito umiliato dal quel richiamo ossessivo a “chiedere scusa” e a rinnegare le battaglie di un quinquennio. Tatticismi, opportunismi, e personalismi che rendono difficile rilanciare l’azione del Pd nel solco di un’azione riformista di alto profilo. Noi però ci dobbiamo provare comunque, consapevoli che tutto si giocherà sul consenso che la mozione Giachetti/Ascani otterrà il 3 marzo.

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