di Riccardo Saccenti
I fatti di Washington non rappresentano un evento occasionale né possono essere ridotti a semplici conseguenze della presidenza Trump. In essi vi è certamente l’immagine icastica e più violenta di due tratti essenziali che accomunano le diverse forme politiche che nell’ultimo decennio sono state ricondotte sotto la categoria del “populismo”.
Da un lato, vi è un esplicito e praticato disprezzo delle istituzioni e delle dinamiche democratiche, che rimanda a quelle che si sono definite democrazie “illiberali” o alla costruzione di un rapporto diretto, privo di mediazioni politiche e partitiche, fra “popolo” e capo, che Trump ha cercato di incarnare.
Dall’altro lato, vi è la volontà programmatica di alimentare ed esacerbare i conflitti sociali, passando dalla dinamica del confronto democratico ad una riproposizione dell’alternativa insanabile fra amico e nemico.
Questa metodologia politica, che ha caratterizzato la presidenza Trump ma si ritrova in molti “epigoni” o in altri populismi diffusi nei diversi continenti, ha potuto mettere radici in un terreno già logorato da un lungo e complesso processo di deterioramento della nozione stessa di democrazia. La tendenza a ridurre l’esercizio della democrazia alla ritualità dei passaggi elettorali a contribuito a svuotare la “rappresentazione” della prassi democratica della dimensione della partecipazione e dell’integrazione. È questo processo “lungo” che ha dissodato il terreno in cui i tweet di Trump hanno potuto alimentare quella alternative truth che ha qualificato la sua presidenza.
Emerge allora un nodo pienamente politico che riguarda la natura della democrazia, il suo non essere fatta solo di istituzioni e leggi. Alexis de Tocqueville, guardando all’esperienza politica statunitense, osservava come la democrazia fosse nella sua essenza un fatto di “costumi”, ossia uno stato morale e intellettuale che si traduce in quei valori e prassi condivisi che sono ad un tempo il presupposto e l’alimento della vita istituzionale.
Quello che l’esperienza di Trump, e più in generale dei populismi, lasciano emergere come problema è dunque la costruzione di un ethos democratico, capace di dare forma ad una partecipazione e ad una vita associativa che è essenziale per porre ciascuno individuo al di fuori della propria sfera privata e innestarlo in quello spazio pubblico di cui è chiamato a condividere la responsabilità. È questo a rappresentare l’antidoto più efficace ad ogni tentazione autoritaria in questo passaggio fra la prima e la seconda decade del XXI secolo che Pankaj Mishra ha chiamato “età della rabbia”.
Si dispiega in tal modo un orizzonte di cultura politica del tutto nuovo e sul quale sono chiamati ad assumere un ruolo di primo piano soprattutto i cristiani. La costruzione di una democrazia per il XXI secolo che abbia le caratteristiche richiamate sopra pone la sfida di guardare alla nozione di fraternità, a cui il vescovo di Roma ha dedicato la sua ultima enciclica, come qualcosa che va ben oltre il semplice piano dei sentimenti e dei valori morali. Perché proprio la realtà politica della rabbia e della divisione di cui abbiamo fatto e continuiamo a fare esperienza fanno della fraternità una categoria tutta politica, la quale attende di essere declinata e sostanziata.
Questo suo emergere dalle pieghe magmatiche degli eventi e della realtà ne fa, per i cristiani, un grande “segno dei tempi”: ossia, un elemento che aiuta a tornare al Vangelo e a comprenderne aspetti sinora sconosciuti di piena umanizzazione. Anche la volontà di compiere questo sforzo spirituale e religioso svolgerà un ruolo nel tempo che è arrivato e contribuirà e segnare il discrimine fra democrazia e anti-democrazia.
Professore di storia della filosofia medievale all’Università di Bologna, si occupa di ricerca nell’ambito della storia del cristianesimo. È responsabile Meic per la Toscana