di Danilo Paolini
«Riformista» è un aggettivo politico nobile, che affonda le sue radici nella storia del movimento socialista: riformisti erano coloro che si opponevano ai massimalisti, i fautori dei miglioramenti graduali contro quelli dell’azione rivoluzionaria. Ma oggi? Ha ancora senso una simile classificazione? E con quale significato? Mentre il Partito democratico si arrovella e litiga intorno agli inviti a cena, alla leadership e alla data del congresso, Libertà Eguale – non una corrente, ma un’associazione alla quale aderiscono anche non iscritti al Pd – prova a elaborare un modello di riformismo in grado di affrontare le sfide del tempo presente e, possibilmente, di quello futuro.
La sfida dell’immigrazione
Tra queste figura senz’altro l’immigrazione, verso la quale si propone un approccio al tempo stesso pragmatico e umanitario: flussi regolati per gli immigrati economici; accoglienza dei richiedenti asilo con verifica dei requisiti nei Paesi di transito e nel pieno rispetto dei diritti umani; «mezzi di trasporto sicuri» e organizzati per i migranti regolari, soluzione che ricalca i “corridoi umanitari” già sperimentati con successo grazie alla Cei, alla Comunità di S.Egidio, alla Tavola Valdese e alle Chiese Evangeliche.
I frutti dell’ultima Assemblea nazionale di LibertàEguale, che si è tenuta in luglio a Orvieto, sono ora raccolti in 11 “tesi” per un riformismo rinnovato. E al primo punto c’è la conferma che i rivali, i massimalisti di questa epoca, sono i «nazionalpopulisti».
Un’alternativa ai nazionalpopulisti
I quali vanno contrastati in un solo modo: costruendo «una credibile alternativa di governo» e scartando l’idea illusoria di poterli «addomesticare» tramite alleanze, per esempio tra il Pd e i 5 stelle.
Si tratta di un’impresa più facile da dichiarare che da realizzare e l’associazione presieduta da Enrico Morando ne è ben consapevole. Tanto da fissare alcuni punti sui quali battere per far cadere il muro dei movimenti «illiberali». La sinistra rimasta «senza prospettiva» con l’avvento della rivoluzione digitale e della globalizzazione, per esempio, dovrebbe «darsi un profilo ideale, programmatico, politico e organizzativo del tutto nuovo». Il mondo che si aspira a governare è cambiato, anzi cambia a gran velocità. Perciò l’approccio globale dei riformisti dovrebbe essere quello dell’«utopia democratica della pace»: non una formula ingenua, bensì «un esercizio di realismo» basato sul dialogo all’interno delle istituzioni internazionali.
Un’autentica sovranità a livello di Unione Europea
La parola «sovranità» (non sovranismo), poi, non deve spaventare, se si tratta di un’autentica sovranità a livello di Unione Europea e, soprattutto, nell’area dell’euro: difesa e sicurezza dei confini esterni, politica fiscale, politiche sociali… In chiave interna, la riforma istituzionale proposta è quella semipresidenzialista alla francese. Mentre il Pd dovrebbe cambiare perché, «nonostante il nome è un partito assai poco democratico»: la partecipazione si è limitata fin qui alle primarie, non scalfendo «il controllo del partito nelle mani delle correnti».
Quanto al lavoro, la sinistra non può rinunciare a difenderlo. Ma il lavoro di oggi non è quello di ieri, né lo sono i lavoratori.
Perciò occorre innovare la legislazione in materia e il modello di contrattazione. In questo senso, i riformisti di oggi possono ben ripescare una formula enunciata da quelli di ieri, alla Conferenza di Rimini del Psi nel 1982: «l’alleanza tra meriti e bisogni». Un’alleanza che oggi, vista la dinamicità e la variabilità delle condizioni, deve diventare «un costante intreccio».
Anche nell’ambito della scuola e dell’università.
(Articolo già pubblicato da Avvenire, il 22 settembre 2018)
Danilo Paolini è caporedattore, responsabile della Redazione romana ed editorialista di Avvenire.
Potete mandarmi gli 11 punti per un futuro del PD?
Grazie, Claudio Pontiggia circolo PD centrostorico Genova