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14 settembre, il D-Day del sistema scolastico italiano

Giovanni Cominelli lunedì 31 Agosto 2020
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di Giovanni Cominelli

 

Un esercito disorientato di 7.599.259 alunni delle scuole statali, di circa 870.000 alunni delle scuole paritarie, di 835.489 insegnanti, di 7.859 dirigenti, di 203 mila ATA, di circa 15 milioni di genitori sta recandosi all’appuntamento fatale del 14 settembre, quando le scuole apriranno i battenti. Perché fatale? Perché, a dispetto dell’ottimismo di maniera – “andrà tutto bene!” – il Covid-19 non sta mollando la presa, così che l’imprevedibilità degli scenari si è venuta accentuando. Se nella fase iniziale dell’epidemia gli Ospedali hanno funzionato da bomba biologica, è concreto il rischio che questo ruolo venga assunto dalle Scuole, popolate da bambini e adolescenti eventualmente infettati, per lo più asintomatici, e pronti a redistribuire in famiglia il micidiale virus.

Perché disorientato? Per molte ragioni: i mille Decreti governativi, con il corteo inevitabile di Decreti attuativi e di regolamenti; gli scontri tra Governo e governi regionali sui tempi di ingresso nelle scuole, sui banchi – con o senza rotelle? – e sulle mascherine con l’appendice logistica delle “rime buccali”; gli allarmi degli esperti; la renitenza crescente degli insegnanti alla leva. Stretto tra l’insostenibilità sociale di una serrata a tempo indeterminato degli Istituti scolastici – le famiglie hanno ben presto incominciato a protestare – e il rischio di trasformare ogni Istituto scolastico in una centrale di contagio,il Governo si è mosso in ritardo, in modo goffo e incerto.

Nonostante le scuole siano state chiuse con il DPCM del 4 marzo 2020, il Piano scuola è stato inviato alle Regioni per la prima volta solo il 23 giugno, cioè oltre 3 mesi dall’inizio dell’emergenza, e dopo essere stato discusso nella Conferenza Unificata con le Regioni solo il 25 giugno. Il primo segno ufficiale di vita è stato dato dal Governo solo il 26 giugno, sotto la pressione crescente delle manifestazioni di piazza dei genitori e nonostante le resistenze dei sindacati, che controllano di fatto la politica del Ministero. In quel giorno, il Presidente del Consiglio e la Ministra Lucia Azzolina hanno presentato le Linee Guida per la riapertura delle scuole, intitolate “Documento per la pianificazione delle attività scolastiche, educative e formative in tutte le Istituzioni del Sistema nazionale di Istruzione”.

Perché tanto attendismo? Perché dell’universo scolastico interessano, da sempre, solo le potenzialità di consenso elettorale, che sono fornite principalmente e immediatamente dalla massa degli 800 mila insegnanti e da quella dei precari che ci girano intorno. La Ministra del M5S non ha dimenticato che nelle elezioni del 2018 il 41% degli insegnanti ha votato il suo partito. Quanto all’altro partner dell’alleanza giallo-rossa, il PD, dopo il sostanziale fallimento dell’operazione Buona scuola, pare avere abbandonato definitivamente il terreno di battaglia, delegando totalmente le politiche alla Ministra pentastellata. Ha fatto più politica scolastica la Ministra della Famiglia, Elena Bonetti, di Italia Viva. Tuttavia, in questi giorni di fine agosto, si sta gonfiando la questione dei docenti, di quelli che non vogliono rientrare in servizio e di quelli che mancano. Il Governo ha deciso di invitare gli insegnanti a fare i tamponi. Ci si aspettava che, trattandosi di “funzionari” dello Stato, chiamati a svolgere una funzione pubblica, il Governo li rendesse obbligatori. Invece sono rimasti “volontari”.

A questo punto, molti insegnanti non li vogliono fare, con le motivazioni più disparate: che li hanno già fatti, o perché già colpiti a suo tempo direttamente da Covid-19 o perché già coinvolti in quarantene familiari; perché sono considerati inutili o utili solo per un giorno – oggi risulto immune al tampone, domani no – ; perché, se risulto “positivo”, automaticamente la mia famiglia finisce in quarantena, compreso il coniuge che lavora… Intanto, sono incominciate ad arrivare centinaia di lettere ai Presidi, in cui i docenti denunciano la propria condizione di “fragilità” e chiedono/annunciano pertanto di restare a casa in malattia.

E’ noto che l’età media dei docenti italiani è la più alta al mondo. Lo segnala il Rapporto dell’Ocse sull’istruzione, “Education at a Glance 2019”: circa il 60% dei docenti è ultra-cinquantenne. Contemporaneamente l’Italia ha la quota più bassa di insegnanti nella popolazione di età compresa tra i 25 e i 34 anni. La tragedia del Covid sta facendo esplodere un bubbone infiammato da anni: quello della politica del personale scolastico. Dal 5 marzo una quota notevole di insegnanti, variabile da scuola a scuola, da territorio a territorio, non ancora quantificata – ma forse non lo sarà mai – se l’è data a gambe, come gran parte dell’Amministrazione pubblica: stipendio assicurato, lavoro impossibilitato.

D’altronde, il Net-working non è previsto dai contratti, come prontamente hanno sottolineato e continuano a sottolineare i sindacati. I quali si sono subito cimentati in interrogativi degni della scolastica medievale: se uno è a casa in quarantena, è obbligato al Net-working? No, perché la quarantena è una malattia. Così il Net-working si è subitamente trasformato in Not-working. Ovviamente retribuito. E le poco sudate ferie? Non si potrebbero anticipare? No, sono regolari solo se fatte ad agosto. Si potrebbe indugiare moralisticamente sulla scarsa tendenza all’eroismo dei nostri docenti, ma chi si sente eroe del Covid-19 scagli pure la prima pietra! Occorre una spiegazione meno moralistica della caduta massiccia di senso civico e di deontologia professionale di molti docenti.

Alle spalle sta una mutazione antropologica, che ha cause ben individuabili. Con l’avvento della scuola di massa, dopo l’introduzione della Nuova Scuola Media nel 1963, gli insegnanti sono aumentati, appunto, in modo massiccio e si sono trasformati, dopo il periodo “eroico” degli anni ’60-primi anni ’70, in una massa di funzionari statali, fortemente sindacalizzati, sempre meno ideologizzati – di per sé non era un male – rigorosamente attenti ai propri diritti, veri o presunti, reclutati a caso, nonostante i concorsi o proprio a causa della casualità dei concorsi, pagati discretamente, rispetto agli altri dipendenti statali, ma poco rispetto alla funzione civile e nazionale oggettiva chiamati a svolgere. Il passaggio dall’insegnante-missionario, dotato di vocazione culturale e civile, all’insegnante-impiegato è stato fortemente perseguito dall’Amministrazione ministeriale e dai sindacati: dall’Amministrazione, che segue fatalmente una filosofia di standardizzazione burocratica dei comportamenti; dal sindacato, che co-gestisce direttamente poteri e benefit dall’interno e gestisce una professione sempre più svalutata socialmente. E la politica: salvo lampi di riformismo, si è accodata.

Gli insegnanti hanno sempre rappresentato una notevole constituency elettorale, spostatasi a sinistra, ma oggi al 41% verso il M5S. Guai a chi la tocca. La condizione attuale della categoria – invecchiamento crescente, scarsità di vocazioni, eroismo missionario di una minoranza, troppi insegnanti per caso – è effetto di politiche, di cui l’avvento inaspettato del Covid-19 ha messo a nudo la miseria culturale, l’opportunismo elettoralistico, l’irresponsabilità civile. Il problema sono i docenti, a questo punto? No, è la politica, che non ha costruito lungo i decenni un profilo istituzionale e sociale autorevole del docente, non lo retribuisce, non lo valorizza, non lo valuta, non ne differenzia carriere e stipendi. L’assunzione frettolosa, ma non troppo, di 50 mila nuovi insegnanti – gli Istituti sono 41 mila – non basta a riempire i vuoti dovuti a pensionamenti e a Quota 100. I sindacati hanno calcolato che serviranno circa 250 mila supplenti. Non c’è nessun traccia di consapevolezza né nella Ministra né nel Governo, né nel M5S né nel PD della condizione drammatica cui si sta avviando la scuola italiana.

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