di Vittorio Ferla
L’invasione dell’Ucraina da parte della Russia fa tornare di attualità la collocazione geopolitica dell’Italia. Allo stesso tempo, torna di moda un tema che i paesi membri dell’Unione europea hanno colpevolmente archiviato dagli anni Cinquanta a oggi: la difesa comune. Di questo si è discusso a Roma all’Istituto Sturzo in occasione di un convegno promosso mercoledì 26 da Libertà Eguale e da Base Italia con il titolo: “La sicurezza è la base di ogni comunità politica. L’unione di difesa europea per un nuovo ordine internazionale”.
L’evento cade a 70 anni dal trattato per la costituzione della Ced, la comunità europea di difesa. Una ricorrenza assai singolare perché richiama alla memoria un accordo mai nato. Un’occasione che l’Europa ha perduto ai suoi albori e che oggi mortifica la capacità di reazione dell’Ue contro la minaccia che arriva da Mosca. Le ragioni del fallimento di quel trattato – il “più avanzato del pensiero riformatore europeista” – le racconta con dovizia di particolari Sergio Fabbrini, politologo e decano del Dipartimento di Scienze politiche della Luiss. L’Europa è appena uscita dalla tragedia della seconda guerra mondiale. L’obiettivo è quello di creare le condizioni per una pace duratura nel vecchio continente, basata sulla libertà, la democrazia, la prosperità economica e lo sviluppo sociale. Per compiere questo cammino sono necessarie due gambe. La prima, economica: la comunità del carbone e dell’acciaio che costituisce la base di partenza del futuro mercato unico. La seconda, militare: la comunità di difesa, che avrebbe portato necessariamente alla nascita di una federazione di stati. I due teorici della unione di difesa sono Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli. Il testo di quell’accordo dimostra quanto fossero illuminati i pensieri di chi lo aveva concepito. “Il trattato si esplicava su due versanti. Quello interno, rivolto a garantire la sicurezza tra i paesi europei che si erano combattuti per secoli. Quello esterno, motivato dalla necessità di difendersi dalla eventuale minaccia dell’Unione Sovietica”, ricorda Fabbrini. Un’architettura sofisticata che prevedeva un sistema sovranazionale, basato su un comando unificato e un budget comune, nel quadro dell’alleanza transatlantica. Il tentativo di superare i fallimenti che avevano segnato negli anni precedenti il rapporto tra gli stati europei. Una soluzione sensazionale e avanzatissima per il superamento delle difese nazionali e l’integrazione della Germania dell’Ovest. Un contingente comune di 100mila soldati divisi in 40 battaglioni: un numero che fa impallidire se si pensa che oggi, mentre è in corso la guerra in Ucraina, la Bussola strategica ne prevede appena 5 mila. Ma il progetto non passa. A bloccarlo è l’assemblea nazionale francese nel 1954. Racconta Fabbrini: “Il No francese è provocato da un tabù: la sovranità nazionale non si può toccare. Sul punto sono d’accordo sia la destra che la sinistra. Da una parte, i gollisti non accettano l’idea che, in futuro, i soldati francesi possano essere guidati da comandati tedeschi. Dall’altra, i comunisti ritengono che fuori dallo stato nazionale non c’è sicurezza sociale. Entrambi, alla fine, vivono lo stato come un orizzonte insuperabile”.
Le conseguenze sono inevitabili. Nel 1955 la Repubblica federale di Germania entra nella Nato e gli Usa rafforzano la loro presenza militare in Europa. Ma il dibattito odierno falsifica le reali intenzioni dell’America che non aveva alcuna intenzione né alcun interesse a un impegno diretto in Europa. Il paradosso della Nato – riletto oggi – è che serviva a tenere i sovietici fuori, i tedeschi sotto controllo e gli americani – che volentieri si sarebbero disimpegnati – dentro l’alleanza. Tutto il contrario della volontà di dominio sull’Europa che un ampia area di intellettuali attribuisce agli Stati Uniti. Resta il fatto che, dopo la crisi di Suez e il declino definitivo delle nostalgie imperiali di Francia e Gran Bretagna, la sicurezza europea viene garantita dagli Usa. “In sostanza, la Germania ha usato i soldi dei contribuenti americani per garantirsi la sicurezza mentre si concentrava sulla crescita economica. Un vero e proprio azzardo morale”, spiega ancora Fabbrini.
È ormai chiaro da tempo, tuttavia, che l’assenza di una difesa comune è diventata un serio problema per l’Europa. “Gli stati europei singolarmente presi non hanno il fisico per parlare di sovranità”, spiega al convegno Giorgio Tonini, ex parlamentare dem ed ex presidente della Commissione bilancio del Senato, citando Jean Monnet. Poi ricorda le parole del presidente americano Dwight D. Eisenhower che diceva agli europei: “per stare nella Nato avete bisogno della Ced. Noi vogliamo un’Europa in piedi, non assoggettata”. Il problema è che “non può esserci un Pentagono della Ue se non c’è una Casa bianca della Ue”, assicura Tonini. Non puoi avere un esercito comune se non c’è chi lo comanda. L’Europa confederale non basta. Tonini ricorda le parole di De Gasperi a Strasburgo a proposito della Ced: “un’occasione che passa oggi e chissà quando ricapita”. E conclude: “beh, sta ricapitando”. Con un filo di ironia Stefano Ceccanti, deputato del Pd e costituzionalista, avverte: “Il ritorno del nemico è una finestra di opportunità. Stalin è morto troppo presto: era il ’53. Nel ’54 la Ced non è passata anche perché la paura del nemico era venuta meno”.
Adesso che risorge la minaccia dall’est si torna a parlare di difesa comune. Il tema sarà centrale anche nella campagna elettorale italiana. Marco Bentivogli, coordinatore di Base Italia, avverte la necessità di opporsi al “rischio che uno spazio di aggregazioni non atlantista e scarsamente europeista possa prendere il sopravvento”. Enrico Morando, ex viceministro dell’Economia e presidente di Libertà Eguale, ricorda che “la collocazione internazionale è un elemento costituzionale e rappresenta la matrice della politica interna”. Bene ha fatto Mario Draghi a rinnovare la proiezione euro-atlantica del nostro paese. Chi sarà in grado di raccogliere questa eredità alle elezioni del 2023? Morando non ha dubbi. Visto il filoputinismo dei partiti del centrodestra e l’opposizione a Draghi dell’atlantista Meloni, bisognerà guardare alle mosse di Enrico Letta. L’unico coerente atlantista a sostegno del premier in carica.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).