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A Bologna la farsa della vecchia sinistra

Alberto De Bernardi mercoledì 10 Aprile 2019
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di Alberto De Bernardi

 

Dopo diversi anni nei quali Bologna aveva perduto la sua fama di laboratorio della vita politica nazionale conquistate a ragione negli anni dell’Ulivo, tra il 7 e l’8 di marzo del 2019 essa è tornata sulla scena come il centro della vita politica nazionale.

 

La vecchia sinistra riunita a Bologna

In quei giorni si è svolto innanzitutto il I° congresso di Articolo 1 il partitino di Bersani e D’Alema, inutilmente coordinato da Speranza, che ha aperto i battenti al canto dell’Internazionale e del pugno chiuso militante, ha aderito al comitato Lula libero, evocando il tradizionale terzomondismo della tradizione cattocomunista e si è concluso esaltando la necessità di una sinistra radicale sul modello Sanders-Corbyn e l’impegno a dare vita a un partito socialista e ambientalista: rosso-verde. Al di la dei temi discussi il focus del congresso era sdoganare l’alleanza con il Pd, che seppur nel dibattito sia stata sottoposta a mille distinguo e alla richiesta di mille autocritiche, è l’unica cosa che i suoi dirigenti possono fare se non vogliono scomparire.

 

Le lacrime di Merola e la tenda di Prodi

Ai margini del congresso un intervento di saluto del sindaco Merola che ha rivendicato, tra le lacrime,  la necessità del ritorno del “trattino” tra centro e sinistra, perché l’ integrazione – centrosinistra senza trattino – è fallita. Ad anticipare queste tematiche due dichiarazioni di Prodi – cha deve essere uscito dalla tenda perché ormai imperversa quotidianamente dopo anni di burbanzoso silenzio – a sostegno dell’alleanza tra il Pd di Zingaretti e la sinistra di Mdp perché non solo “uniti si vince” e lui lo aveva già capito vent’anni fa costruendo l’Ulivo, ma soprattutto il Pd finisce di essere il partito dei ricchi e può tornare dopo Renzi ad essere il partito del poveri: a corredo, i ripetuti inviti ai riformisti della deputata Zampa, portavoce del “professore” e nulla più, di togliere il disturbo dal Pd.

 

Una rappresentazione farsesca della sinistra

Un vecchio saggio nato a Treviri due scoli fa diceva che spesso la storia quando si ripete diventa una farsa e aveva colto nel segno. Infatti quella che si è verificata a Bologna e appunto una rappresentazione farsesca della sinistra, che allegramente rispolvera i vecchi miti senza sapere di essere “perduta”: una sopravvivenza del XX secolo che oltre a non contare nulla sul piano elettorale (il partito di Prodi alle elezioni prese lo 0,6 e Art.1 à dato all’1,5% in tutti i sondaggi) ha la pretesa di possedere la chiave della riscossa, presentando vecchia ricette già abbondantemente sconfitte come fulminati novità, ovviamente con il corteo di giornaloni e giornalini osannanti.

 

Una visione prigioniera dello scontro destra-sinistra

In effetti dal congresso di Articolo 1 non è uscito niente di interessante e nuovo perché quel campo di forze è prigioniero di una visione del mondo che non riesce a liberarsi del classico scontro tra destra e sinistra, che riproduce, come ha ben messo in luce Maurizio Ferrera su “la Lettura” del 24.3.2019, la vecchia dicotomia tra stato e mercato su cui si erano collocate le appartenenze politiche nel corso del XX secolo: alla destra mercatista/liberista si contrapponeva una sinistra che vedeva nello stato lo strumento per controllare le forze distruttive del capitalismo e garantire eguaglianza e inclusione sociale.

Erano il baricentro politico della “Grande trasformazione” analizzata da Polanyi nel fuoco della seconda guerra mondiale e che ha sorretto il lungo ciclo fordista conclusosi alla fine degli anni settanta.

 

Stato e Mercato si sono combinati in maniera dinamica

Ma per quarant’anni mercato e stato seppur contrapposti nell’immaginario politico, si sono combinati in maniera dinamica creando una sosta di capitalismo statalmente organizzato fondato sull’egemonia americana e lo stato nazionale, che affondava le sue basi sociali in un compromesso progressista tra le due classi dominanti della società industriale: la borghesia e il proletariato. La sovrapposizione tra destra e sinistra da un lato e mercato e stato dall’altro reggeva, anche se l’ordine del mondo occidentale era fondato su una collaborazione che, al di la dei conflitti sociali anche aspri che lo attraversavano, presupponeva il comune riconoscimento della crescita e del benessere collettivo come principi fondanti e irrinunciabili della stabilità politica democratica.

Ma la globalizzazione e la quarta rivoluzione industriale hanno radicalmente modificato questo scenario obbligando a ricollocare la dicotomia destra-sinistra lontana da quell’altra: non si tratta della fine della contrapposizione tra destra e sinistra di cui parlano i populisti, ma, come già ricordava Giddens, di ridisegnare il profilo ideale e progettuale della sinistra oltre la contrapposizione tra stato e mercato, per il venir meno dello stato nazionale e per il moltiplicarsi delle fratture sociali oltre quelle di classe che hanno perso centralità.

 

Oltre la contrapposizione tra stato e mercato

Questo è il cammino difficile, ma imprescindibile, da intraprendere già dalla fine del secolo scorso se la sinistra vuole ancora rappresentare il cambiamento sociale e le speranze degli ultimi, che costituiscono le origini della sua storia ormai bisecolare. E un cammino ancora in corso, che ha seguito itinerari poco lineari, che ha visto crescere fratture e contrapposizioni drammatiche tra diverse anime e diverse visioni, vittorie e sconfitte brucianti, e il traguardo ancora non si vede.

 

Il modello consociativo e l’eccezione italiana

La sinistra italiana costituisce un esempio di scuola di questa difficoltà a uscire dalle sua vecchia ortodossia che è stata speculare a quella della destra legata a un capitalismo familista alla permanente ricerca di protezioni pubbliche. Paradossalmente, la protezione dalla concorrenza internazionale sotto l’ombrello statale perseguita dalle èlites economiche e la difesa del vecchio welfare novecentesco da parte dei sindacati e dei partiti nati dalla dissoluzione del Pci hanno unificato destra e sinistra contribuendo non solo a creare il modello consociativo più solido dell’occidente, ma anche a dare un notevole contributo all’eccezione italiana del XXI secolo: bassa crescita, bassa produttività del lavoro, scarsa mobilità sociale, scarsi investimenti infrastrutturali, debito pubblico in continua crescita. Se era questo il partito dei poveri auspicato da Prodi sarebbe meglio collocarlo tra gli errori da non ripetere.

 

Il progressismo liberale di Renzi e la sinistra ‘perduta’

Renzi è stato l’unico leader della sinistra italiana che ha cercato di trasformare in programma di governo il nodo strategico di ricalibrare il discorso progressista con una forte carica di liberalismo democratico puntando a ridefinire la domanda di protezione sociale che proviene da strati sociali non protetti o protetti poco dal vecchio welfare (giovani, donne, famiglie) con la valorizzazione delle opportunità nuove e straordinarie offerte dalla globalizzazione tecnologica: cioè di riproporre a distanza di quasi un secolo l’integrazione tra socialismo e liberalismo che aveva pensato Carlo Rosselli nel suo esilio lipariota.

Questo progetto ha incontrato l’opposizione della vecchia sinistra, che ha combattuto con testardaggine e con armi che si riterrebbero irrituali e discutibili anche se venissero utilizzate contro gli avversari, per impedire che dal suo declino inarrestabile – in Francia il Ps e al 7% in Olanda al 6%, in Grecia il Pasok è sparito come il partito socialista israeliano, in Germania sono arrivati al 20% e nei paesi dell’est europeo sono ai margini – prendesse forma una nuova sinistra liberale capace di ripensare radicalmente il rapporto tra stato e mercato. Ma al di là della protervia e della cecità, la sinistra “perduta” è stata solo un protagonista residuale di questa sconfitta: una mosca cocchiera si sarebbe detto nel Pci, perché il vero protagonista della crisi della sinistra è stato il nuovo imprenditore politico uscito dalla crisi del 2007, cioè il populismo.

 

La vecchia sinistra si rispecchia nel populismo statalista

Un nuovo attore che si è fatto paladino del vecchio statalismo caro alla sinistra, riconiugato però nel nuovo quadro ideologico sovranistra: stati nazionali chiusi vengono rilanciati come strumenti per difendere quel che resta (e in Europa è moltissimo) delle protezioni ereditate dal grande ciclo progressista tra gli anni cinquanta e settanta a favore di gruppi sociali a loro volte eredi di una stratificazione sociale del passato.

Non è un caso che in Italia gli operai e i dipendenti pubblici siano il grande bacino elettorale della Lega e dei 5S perché in nome di uno statalismo assistenzialista garantiscono il mantenimento di solide tutele sociali a chi già le possiede ed è esposto assai poco ai rischi del cambiamento. I populisti occupano oggettivamente uno spazio che era della sinistra novecentesca e ciò spiega perché pezzi della sinistra radicale e del suo elettorato siano attratti da un dialogo con queste nuove forze: si rispecchiano in un campo di parole d’ordine, di simboli, di programmi che appartiene alla loro identità profonda.

 

L’alleanza tra Pd e i partitini di sinistra cancella il progetto riformista

In questo nuovo scenario, il terreno effettivo di una alleanza possibile tra il PD e questa galassia di forze alla sua sinistra sta nel cancellare il progetto riformista della precedente legislatura, che si può sicuramente catalogare tra le migliori esperienze di “terza via” da Blair in poi, e ricostruire una forza politica interamente iscritta nella tradizione socialista del passato, anche se oggi è la famiglia politica più malandata d’Europa: D’Alema questo ha chiesto dal palco del congresso di Bologna a Zingaretti, invitandolo per le spicce a portare a termine il rinculo progettato dai suoi strateghi Bettini e Smeriglio.

 

Verso l’alleanza tra sinistra tradizionale e populismo di sinistra

Ma questa alleanza per avere un senso non può che essere propedeutica all’altra, ben più consistente sul piano strategico, che è quella di un’alleanza tra una sinistra ricondotta nel suo alveo tradizionale – che in Italia però non è stata la socialdemocrazia ma il comunismo eccentrico del Pci – e il populismo a sua volta “di sinistra”, che ha per base programmatica il ritorno alla vecchia contrapposizione tra stato e mercato come fulcro dello scontro tra destra e sinistra: una follia, che per ora è stata impedita dall’ultima grande scelta politica di Renzi (altro che pop corn…) ma che ritorna costantemente perché ha delle sue oggettive basi politiche.

L’alternativa è muoversi in direzione di una rinnovata “terza via”, o come la si intenda chiamare. Cioè si torna a costruire il “partito della nazione” maggioritario e liberalprogressista, che ha nel populismo il suo avversario su scala mondiale; oppure si ritorna al “socialismo”, che combatte con la destra la sua storica battaglia, che in Italia, però, nella la sua storia recente, non evoca il volto di Brandt, di Mitterand o di Palme, ma quello di un ircocervo rappresentato da D’Alema e dalla Bindi, da Bersani e da Cofferati, dalla Camusso e da Bertinotti, insieme a uno stuolo di intellettuali e di padri della patria sul viale del tramonto.

 

La vera vittoria politica del populismo? Resuscitare la sinistra identitaria

Un ritorno la cui prima vittima sarebbe proprio il Pd, che prima con Veltroni e poi con Renzi si era allontanano da quelle derive ma che la forza del populismo ha risospinto nelle vecchie ridotte delle tradizioni consunte, negli approdi apparentemente convincenti della sinistra perduta. Al di la dei voti, la vera vittoria politica del populismo è stata interrompere il processo di affermazione della sinistra liberale che era in corso e farla riconfluire nel suo passato identitario e minoritario.

Ma Zingaretti è come l’asino di Buridano: i suoi consiglieri lo spingono in quella direzione, ma sembra consapevole che una parte consistente del suo gruppo dirigente, al di la degli opportunismi congressuali e delle ambizioni di carriera personali, non sarebbe disponibile a tornare al Pds, anche per la costatazione banale che un partito cosi fatto farebbe fatica a raggiungere il 20% nei prossimi anni: anche se ha vinto il congresso promettendo “il grande ritorno al passato”, appare sempre più evidente che realizzare effettivamente la promessa è andarsi a mettere nel vicolo cieco nel quale stanno ormai da tempo i congressisti di Bologna, cioè laddove li ha spinti la vittoria di Di Maio e Salvini, che per loro è stata un sberla ancor peggiore di quella presa dal PD.

 

Unire la sinistra contro la destra: una proposta datata e consunta

In un vuoto di indirizzo politico, il segretario mesta nel torbido della “politica delle alleanze”: una scelta suicida perché impegna uno dei più ragguardevoli capitali politici della sinistra europea – solo il partito socialista portoghese e il Labour hanno più voti del Pd – in una operazione politicista e di retroguardia, priva di appeal elettorale (ricordarsi Bersani 2013), senza esplicitare la qualità e i contenuti dell’offerta politica del partito che dirige.

Presentarsi alle Europee con il messaggio “unire la sinistra” per aprire una nuova stagione di lotta contro “la destra” prevedendo uno scenario occidentale attraversato da una radicalizzazione dello scontro tra queste due polarità non è sensato perché la proposta è datata e consunta, ma soprattutto è priva di interlocutori.

Nonostante gli sforzi del gruppo Espresso-Repubblica e delle televisioni di Cairo di accreditare la tesi che la sinistra esista e sia uno spazio dinamico, come nel 1994/5, in Italia la sinistra è un deserto (23% a essere ottimisti) di voti e di idee, che ha inoltre come unico elemento di coesione interna lo scontro con i riformisti per aprire all’alleanza populista, spaccando o spacchettando il Pd. E’ in realtà un manipolo di ceto politico residuale soprattutto di ex comunisti e di intellettuali che provengono dalla stessa storia, sovraesposto sul piano comunicativo, ma sganciato da ogni effettiva rappresentanza sociale: tutti baby boomers, che dominano da anni, il mondo della comunicazione scritta e televisiva, che, però, le elezioni del 4 marzo del 2018 e quelle successive hanno dimostrato essere generali senza esercito.

 

“Campo largo” o vicolo cieco?

Se tutta questa strategia del “campo largo” si riduce a due o tre posti in lista alle europee per seconde fila di Articolo 1 (gli ultimi quadri locali del dalemismo), più qualche ex dirigente della Cgil, più qualche magistrato antimafia nel Mezzogiorno (come se tutto il sud fosse Gomorra) e la foglia di fico di Calenda, non fornisce una prospettiva credibile, perché è basata su una analisi sbagliata della fase politica e della struttura sociale del paese: andare da Macron a Tsipras è una strategia; andare da Calenda a Pisapia è galleggiare senza una effettiva prospettiva.

Infatti a una quarantina di giorni dalle elezioni europee non abbiamo ancora detto all’elettorato quale Europa vogliamo e come e con chi farla, spingendo molti elettori e militanti del Pd a scegliere +Europa il cui profilo europeista è più chiaro e marcato di quello del Pd: con Calenda e Bonafè vai verso l’Alde insieme a + Europa e con i verdi centristi, con i transfugi di Leu e Pisapia si guarda all’ala sinistra del Pse, che guarda a sua volta verso la gli eurocomunisti e gli ecosocialisti. Forse raccatti un pò di voti, ma una volta eletto come si muove il gruppo parlamentare europeo? L’orribile divaricazione del voto su Maduro la dice lunga di quali rischi si corrono nel costruire carrozzoni elettorali privi però di identità programmatica.

 

L’unionismo anti-Salvini è privo di contenuto

Oggi il Pd sta solo “prendendo tempo”: una girandola e di iniziative e dichiarazioni prive di contenuto, in assenza di iniziativa politica; sta già “tirando a campare” a solo un mese dal congresso perché chi lo dirige non ha le risorse politiche per fare quello che ha promesso e la promessa nei fatti non va oltre una riedizione dell’Unione, che era già la riedizione farsesca dell’Ulivo, con forze politiche rissose e ridotte ai minimi termini, unificate dall’ “antisalvinismo” che a sua volta è la riedizione farsesca dell’antiberlusconismo, con il suo mesto corteo di scontri all’arma bianca tra fascismo e antifascismo.

In ogni caso – come era già evidente nel dibattito congressuale – questa proposta non riesce ad essere il fulcro di una alternativa effettiva al populismo perché è in attesa di allearsi con la sua “ala sinistra”, che ai fini degli interessi del paese è forse più pericolosa della sua ala destra.

 

Riprendere il cammino del riformismo

Bisognerebbe invece riprendere il cammino interrotto il 4 marzo per cercare di dialogare con quel 40% di elettori che avevano dato per ben due volte fiducia al Pd, proprio perché era riuscito a superare quelle vecchie tagliole ideologiche e a presentarsi come il partito delle opportunità, ma anche delle nuove protezioni, collocando la distinzione tra destra e sinistra sulla discriminante conservazione/innovazione.

Attorno a questo partito “della nazione” si era raccolto il consenso largo di quel centro “repubblicano” riformatore e democratico che è una componente essenziale del riformismo europeo, e che poi si è progressivamente allontanato dal Pd quando il suo profilo si è opacizzato e si è messo in moto invece il “grande rinculo”.

Su questo dovrebbe ruotare la nostra proposta politica in Europa come nei comuni dove si voterà a breve per riprendere il dialogo con quegli elettori, che per comodità chiamiamo centristi o moderati, ma che in realtà sono forze vitali che costituiscono la base più solida della stabilità democratica della nazione, appunto. Sono quelli che riempiono sale e teatri dove Renzi presenta il suo libro, ma che al Pd di Zingaretti sembrano non interessare come potenziali elettori perché fanno emergere l’inconsistenza politica della demonizzazione del Pd riformista su cui ha vinto il congresso.

 

Una traversata in mare aperto

Il “nuovo Pd” – mai aggettivo è stato usato in maniera più maldestra – si accontenterà del 20% dicendo che è una grande vittoria, perché ha preso 1 o 2 punti in più di quello “vecchio” e l’elettorato rifomista e democratico rimarrà alla finestra in attesa di una offerta politica convincente. Per fortuna Renzi è in campo: è il leader riformista dotato del più altro consenso in Italia e di una reputazione internazionale notevole. Se darà una mano alle elezioni tenendo alta la bandiera della sinistra liberale non tutto è perduto. Ma sarà comunque una traversata in mare aperto e con poche carte nautiche.

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3 Commenti

  1. Silvano Lombardo mercoledì 10 Aprile 2019

    Un analisi perfetta.

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  2. Domenico Beltrame mercoledì 10 Aprile 2019

    Grazie, io sono solo un semplice elettore con un passato di militanza nel PRI bolognese ma mi sento di dirle che mi ritrovo parecchio nel suo articolo, il quale recepisce ed esplicita le mie attuali perplessità politiche.

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  3. mario giovedì 11 Aprile 2019

    Coloro che hanno contrastato ilPD al referendum istituzionale l’ anno combinata troppo grossa e non devono piu’ rientrare nel PD e Zingaretti non deve essere succube di D’Alema e compagni ma continuare con una linea politica che posss attrarre centristi che guardano a sx e cattolici.

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