di Pietro Ichino
La Festa della Liberazione non può ridursi a un’acritica celebrazione dell’epopea partigiana: deve essere anche l’occasione per riflettere sulle gravi responsabilità delle forze antifasciste nell’avvento della dittatura
Se è solo – come purtroppo da tempo tende a essere – un’occasione per rinnovare frasi retoriche sull’eroismo dei partigiani, o la celebrazione acritica del trionfo della democrazia sulla dittatura, il 25 aprile rischia persino di diventare un rito controproducente.
Tutt’altro valore avrebbe se fosse l’occasione per riflettere, prima ancora che sulla Liberazione dal fascismo, sul fascismo stesso e le sue cause.
È giusto ricordare il sacrificio di chi ha sacrificato la vita per la libertà; ma non dobbiamo sprecare quest’occasione preziosa per riflettere anche sulle responsabilità di chi, un quarto di secolo prima, il fascismo avrebbe dovuto combatterlo efficacemente e invece gli spalancò le porte.
Conoscere e far conoscere anche le vicende del quinquennio 1919-24, durante il quale le forze antifasciste si suicidarono. Ripercorrere criticamente gli anni in cui il movimento operaio dissipò tutta la propria enorme forza in un gran fiorire di scioperi senza costrutto e senza speranza; gli anni delle piccole, sciocche violenze dei braccianti contro i padroni, destinate soltanto a essere usate per giustificare le grandi, sistematiche violenze degli squadristi.
Studiare – noi tutti, non soltanto i nostri ragazzi totalmente ignoranti del secolo passato – gli anni nei quali l’intera sinistra italiana si lasciò stregare dalla rivoluzione russa e si mise a predicarne il prossimo avvento anche a sud delle Alpi, riuscendo ciononostante a dividersi tra comunisti e socialisti, poi tra socialisti massimalisti e riformisti, fino a presentarsi frantumata alle elezioni del ’24; cui i fascisti trionfanti si presentarono invece con un listone capace di unire quasi tutto il resto dell’elettorato, giungendo a vincere col voto del 64,9 per cento degli italiani.
Se non la utilizziamo per una approfondita riflessione critica sulle origini della dittatura, sul motivo per cui in quel passaggio fatale essa ricevette qualche applauso anche dai Giolitti e dai Croce, la festa del 25 aprile rischia persino di favorire il ripetersi degli errori originari.
(25 aprile 2021)
Risposta alle reazioni sdegnate, e in alcuni casi violente, suscitate dal mio invito a una riflessione sulle responsabilità (anche) delle forze antifasciste nell’avvento del regime mussoliniano: davvero discutere pacatamente sulle radici della catastrofe è un insulto alla Resistenza?
Il mio editoriale di ieri, sulla necessità che la Festa della Liberazione sia anche l’occasione per una riflessione approfondita sulle radici della dittatura, ha suscitato un gran numero di reazioni di rifiuto sdegnato, in alcuni casi anche violento. Come se io avessi messo in dubbio che in questa ricorrenza importantissima si debbano ricordare con immensa gratitudine tutti coloro che per liberare il Paese dal nazi-fascismo hanno sacrificato la vita. Ovviamente non sostenevo questo, bensì soltanto che celebrarla bene implica anche coglierne l’occasione per riflettere sul tema cruciale delle cause della catastrofe del fascismo e della guerra.
Se chiarirsi le idee sulle radici del male è necessario, dobbiamo riflettere sul fatto che nel quinquennio 1919-1924 l’Italia non si è trovata a scegliere tra un regime liberal-democratico e una dittatura: le alternative maggiori, in quegli anni, erano costituite da due movimenti politici ispirati entrambi a una drastica svalutazione del regime liberal-democratico.
Erano le due versioni, di sinistra e di destra, dell’idea hegeliana della violenza rivoluzionaria come levatrice della storia, che giustifica sé stessa per il solo fatto di essere vincente: a sinistra erano tutti convinti che anche da noi dovesse accadere ciò che era appena accaduto in Russia e stava già allora evolvendo in senso totalitario; da destra si rispondeva nella forma del fascismo liberticida, dotato del braccio armato dello squadrismo assassino.
Pochi sono consapevoli del fatto che a sinistra, in quegli anni, non erano solo i comunisti – staccatisi nel ’21 dai socialisti – ad assumere come modello la rivoluzione bolscevica, ma anche una larga maggioranza dei socialisti stessi. Questo contribuì a indebolire gravemente l’opposizione alla violenza e all’illegalità praticate dal movimento fascista: perché era anche la componente maggiore di quell’opposizione, il Partito socialista, a teorizzare una dittatura, ancorché intestata al proletariato, e l’inevitabilità della violenza rivoluzionaria (ancorché qui non ancora concretamente praticata, se non in pochi casi marginali e isolati).
Non si può chiudere gli occhi sul fatto che in quegli anni la prospettiva del mantenimento di un regime liberal-democratico era svalutata da entrambi i movimenti maggiori come una mistificazione; era quindi schiacciata tra le due alternative maggiori. Il che spiega il comportamento da pesce in barile, sfociato alla fine in una sostanziale condiscendenza verso il Mussolini trionfante, che in quegli anni venne tenuto, tra i liberali, anche da figure di grande prestigio come Giovanni Giolitti e Benedetto Croce.
I socialisti in seguito avrebbero corretto per primi questo loro grave errore; i comunisti, invece, vent’anni dopo avrebbero partecipato alla Resistenza perseguendo ancora come modello di Stato e di società quello stalinista. Il 25 aprile dei Paesi europei non protetti dall’ombrello atlantico non è stato un passaggio dalla dittatura alla libertà, ma il passaggio dalla dittatura di destra a una dittatura di sinistra: basti pensare alla vicenda tragica dell’eroe della Resistenza polacca Witold Pilecky.
Il Pci ebbe poi il merito di convertirsi alla democrazia e di promuovere la stessa conversione nell’intero movimento operaio italiano; ma se nel 1945 l’Italia si fosse trovata dall’altra parte del confine tracciato dagli accordi di Yalta, la fine della dittatura fascista avrebbe probabilmente coinciso anche per noi con l’inizio di un regime stalinista. Perché mai di questo nella Festa della Liberazione non si dovrebbe discutere? Non è forse questo rifiuto sdegnato di parlarne un omaggio postumo alla grande abilità politica e culturale con cui il Pci in quegli anni riuscì a mettere in ombra i propri legami con il regime sovietico prima ancora che essi venissero definitivamente recisi?
Se non mettiamo a fuoco i termini della contrapposizione politica e ideale che caratterizzò lo scontro politico in Italia nel 1919-24, quindi l’insieme delle cause dell’avvento del regime mussoliniano, non possiamo neanche capire fino in fondo la stagione che ci ha donato la libertà, né trarre da quella storia gli insegnamenti necessari per impedire che qualche cosa di quel genere si ripeta. Basti pensare alla tendenza della sinistra e dei liberal-democratici a dividersi in fazioni che si guardano in cagnesco; oppure all’ira funesta scatenata da queste mie riflessioni in una parte della sinistra.
L’invito che rivolgo a tutti è a una discussione pacata, non faziosa, e soprattutto bene informata. A chi vi è interessato raccomando, come primo passo, il libro M – Il figlio del secolo, di Antonio Scurati (Giunti, 2020).
(26 aprile 2021)
Già senatore del Partito democratico e membro della Commissione Lavoro, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Ordinario di Diritto del lavoro all’Università statale di Milano, già dirigente sindacale della Cgil, ha diretto la Rivista italiana di diritto del lavoro e collabora con il Corriere della Sera. Twitter: @PietroIchino