di Stefano Ceccanti
Come contributo al dibattito aperto sulla guerra in Ucraina propongo 4 punti per ragionare.
Il punto di partenza di queste riflessioni deve essere chiaro: a fine febbraio la Russia ha aggredito l’Ucraina in modo ingiustificabile.
L’Ucraina ha, come riconosciuto anche dalla Carta dell’Onu, un diritto di legittima difesa, un diritto che dovremmo particolarmente apprezzare come cittadini di un Paese che ha dato al mondo una canzone come “Bella ciao” che inizia con la frase “Una mattina mi son svegliato e ho trovato l’invasor”.
L’Ucraina ha deciso di esercitare questo diritto senza chiedere permesso a nessuno, sulla base di un obiettivo ampio consenso al suo Governo, e chiedendo aiuto.
Questo evento particolare non sembra venire da solo, ma sembra invece iscriversi in un quadro generale in cui sembra essersi dissolto il clima più ottimistico della Terza Ondata democratica, nel ciclo iniziato con la Rivoluzione dei Garofani in Portogallo nel 1974 fino alla disintegrazione dell’Impero sovietico, a favore di una visione più realistica.
Il “realismo cristiano”, l‘ “ottimismo tragico” di Emmanuel Mounier, ci deve sempre portare a non perdere l’equilibrio tra le due verità fondamentali di cui è portatore il cristianesimo: la persona è chiamata a partecipare alla volontà divina di redenzione dell’uomo, ma esiste sempre il peccato originale e quindi lo sforzo di redenzione non può portare a creare un Paradiso in terra, ma solo una società migliore di quella pre-esistente.
Viviamo quindi in un mondo imperfetto, segnato dal fallimento di alcune promesse democratiche, degenerato in democrature, ossia in regimi dove vi è un certo grado di concorrenza in elezioni, ma in cui diritti fondamentali sono ampiamente repressi e, se un regime all’interno diffida dei suoi cittadini, è anche altamente probabile che sia aggressivo all’esterno, specie quando teme il contagio delle libertà.
La scelta dei mezzi a cui siamo chiamati deve quindi sì basarsi su princìpi esigenti, capaci di far evolvere le situazioni, ma non può evitare di fare i conti con soluzioni imperfette, non può cadere in forme di massimalismo utopistico.
Non va neanche smarrita la responsabilità specifica in cui ciascuno è chiamato ad operare. La Santa Sede ha nel mondo una specifica responsabilità diplomatica, oltre a una cura pastorale dei propri fedeli dispersi ovunque e una volontà ecumenica importante. Questo spiega perché non si possa chiedere alla Santa Sede o al papa momentaneamente regnante di fare il cappellano di questa o quella alleanza o causa particolare.
È però altrettanto sbagliato che si chieda ai cattolici, in particolare a quelli impegnati in politica, di limitarsi a ripetere le posizioni del papa o della Santa Sede, come se ne fossero una longa manus senza responsabilità proprie e senza una propria cultura politica. Nello specifico italiano il cattolicesimo democratico si è contraddistinto per due scelte di fondo, su cui si è progressivamente registrato un consenso vastissimo, quello della Nato, Alleanza difensiva di quello che, con tutti i suoi noti limiti, è però giusto chiamare il “mondo libero”, e quello dell’Unità Europea.
Anche per questo ho voluto curare in questo periodo la riedizione di due saggi chiave del personalismo comunitario perché essi spiegano i fondamenti di queste due scelte.
I cristiani e la pace di Emmanuel Mounier, scritto nel 1939, poco prima dello scoppio della Guerra, mette insieme in modo indissolubile realismo e profezia. Realismo nel senso del dovere immediato di reagire a sostegno di popoli aggrediti e contro le volontà di potenza di aggressori; profezia perché individua come soluzione di lungo periodo la creazione di istituzioni sovranazionali che limitassero le sovranità assolute degli Stati, causa delle aggressioni. Esattamente la logica del nostro articolo 11 della Costituzione che ripudia la guerra in quanto l’Italia contribuisce, insieme ad altri Paesi, a istituzioni multilaterali che sono in grado di funzionare da deterrenti contro eventuali aggressori. Una scelta nonviolenta multilaterale, non di pacifismo isolazionista.
Riflessioni sull’America di Jacques Maritain che, analogamente a Mounier, ci ricorda il patrimonio comune dell’idea di libertà in tutto l’Occidente, rimuovendo da esule tutte le forme di antiamericanismo cattolico tradizionale, e, in modo profetico per l’Unione europea, l’importanza del progressivo processo federale americano in termini di comunità che si raccoglie rispetto alle sfide esterne anche intorno a istituzioni federali rafforzate. Qui si capisce perché per il cattolicesimo democratico postbellico appartenenza alla Nato e creazione di un’Unione europea anche della difesa avevano un valore complementare.
Cosa fare quindi oggi rispetto ad un Paese aggredito se l’istituzione a cui spetterebbe prevenire e reprimere queste situazioni, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu, non è in grado di farlo perché l’aggressore ha in quella sede un potere di veto? Evidentemente, ragionando sempre in chiave multilaterale, non si può che decidere, seguendo il principio di sussidiarietà, al livello regionale europeo tramite gli strumenti possibili, Unione europea e Nato. Se ci si orienta sulla base di un principio di proporzionalità, come si è fatto, si può distinguere tra le iniziative di aiuto ai legittimi difensori che appaiano in grado di aiutarli senza causare danni maggiori, ossia l’avvio di una nuova guerra mondiale, e quelle che invece andrebbero oltre tale soglia. Per questo si è ritenuto legittimo l’invio di armi, ma non anche l’istituzione di una no fly zone con la quale i nostri Paesi sarebbero entrati direttamente in conflitto con i russi aggressori.
Ovviamente questa decisione si è prestata a critiche di segno opposto. Tralascio quelle quantitativamente molto minori di chi avrebbe voluto rischiare anche uno scontro diretto e mi concentro invece sulla critica pacifista contro qualsiasi invio di armi. Concretamente questa posizione dove avrebbe condotto? I sostenitori parlano di via negoziale come alternativa alle armi, ma nel mondo reale, come spiegato bene nel testo di Mounier, il piano diplomatico non ha una sua alternativa rispetto alla evoluzione della situazione sul campo.
L’esito delle trattative non è dentro una sorta di seminario in cui si decide astrattamente l’ottima composizione dei dissidi, ma rimesso a un negoziato la cui leva è la capacità di ciascuno di agire, anche sul piano dello scontro in atto. La vera alternativa all’invio di armi sarebbe stato quindi un semplice invito alla resa e quindi a un esito di totale disconoscimento delle ragioni degli aggrediti.
Più complessa la questione delle spese per la difesa. Essa sorge da due ragioni: la prima è che, purtroppo siamo in un mondo effettivamente pieno di pericoli da cui difendersi e che quindi richiedono spesa (siamo a poche centinaia di chilometri dai Balcani ancora non ben stabilizzati e sopra un Nord Africa in cui le rivoluzioni democratiche per ora hanno attecchito ben poco) e la seconda è che è divenuto impossibile far gravare in larga parte gli oneri della difesa Ue sui contribuenti americani.
Cosa che, peraltro, appare contraddittoria con la richiesta di un maggiore protagonismo politico europeo. Non appaiono pertanto convincenti le critiche sul “se” dotarsi di una maggiore capacità di spesa sulla difesa (difesa, concetto ben più ampio di quello di spese militari e che comprende ad esempio gli strumenti cibernetici). Appare invece decisivo il “come” operare, riprendendo esattamente settanta anni dopo la prospettiva non di tante iniziative nazionali ma di un’Europa della difesa e della politica estera comune. Quella che per opera soprattutto di Alcide De Gasperi e Altiero Spinelli aveva portato il 27 maggio 1952 a siglare il Trattato sulla Comunità Europa di Difesa, anche con forte di livello di integrazione politica, e che fu poi purtroppo affondata dalla Francia. Con quella si sarebbe creata una Nato con due pilastri politicamente equivalenti. È la prospettiva da riaffermare con forza.
Tratto da www.cittanuova.it
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.