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Al crocevia dell’Occidente

Danilo Di Matteo giovedì 10 Novembre 2022
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di Danilo Di Matteo

 

È un momento cruciale per le liberaldemocrazie e per la civiltà occidentale quello che stiamo vivendo. Da un lato la tragedia ucraina, dall’altro i flussi migratori, senza dimenticare il sangue versato dalle ragazze iraniane e il dramma quotidiano che si vive a Kabul.

Stefano Ceccanti ricorda come l’Unione europea e la Nato rappresentino due pilastri inscindibili. Concordo. Ma in ballo c’è molto, molto di più. C’è “la pretesa” dell’Occidente – del nostro mondo – di essere portatore di libertà e diritti. Anzi, della libertà e del diritto.

Come ha sostenuto il filosofo Massimo Cacciari, ospite di Bianca Berlinguer, qui si decide, ad esempio, della nostra capacità di europei di governare, con il Nord-Africa e con le altre realtà che caratterizzano il bacino del Mediterraneo, spinte demografiche che si protendono proprio verso di noi e che, a loro volta, sono espressione di catastrofi naturali (accentuate da cambiamenti climatici rispetto ai quali siamo tutt’altro che estranei), umanitarie, economiche, etniche e geopolitiche. Le categorie tradizionali non reggono: parole come terzomondismo, atlantismo, sovranismo rischiano (ma è più di un rischio) di non dire più nulla. Gli equilibri tradizionali vacillano, e saltano.

L’Occidente, ecco il succo del mio ragionamento, è, dovrebbe essere molto di più della Nato. La quale ne è una tessera, non l’essenza.

E riguardo ai “nostri” principi – diritto, diritti, libertà, democrazia – mutuerei il titolo di un libro di un altro filosofo, Giacomo Marramao: passaggio a occidente. Globalizzare i diritti non può voler dire estendere ovunque i nostri stili di vita, le nostre visioni del mondo, le nostre fedi e abitudini. Dovremmo compiere un percorso durante il quale “l’Occidente”, nelle sue articolazioni – l’Occidente europeo, quello iberico e latino-americano, quello anglosassone e nord-americano, quello asiatico e del Pacifico –, rappresenti una stazione, non l’approdo.

Semplificare non serve. Sarebbe sterile idealizzare il Sud del pianeta rispetto al Nord predatore. Oppure “il mondo libero” rispetto a miliardi di “barbari” che premono alle sue porte. E, parafrasando ciò che affermava il pastore afroamericano Martin Luther King a proposito della segregazione razziale che contraddiceva lo spirito di apertura dell’America, non possiamo (non dobbiamo) ritrarci in una fortezza (i protezionismi, i muri di sangue come confini impermeabili) a motivo del “mondo cattivo” che ci assedia. Come si può essere alfieri credibili della società aperta difendendola con la chiusura?

Che le semplificazioni non reggono lo dimostra, tra gli altri, l’Afghanistan. Ero un ragazzino quando Gustavo Selva curava sul Gr2 una rubrica: Afghanistan, tragedia di un popolo. Il riferimento era alla sanguinosa invasione sovietica. Ecco, oggi potremmo riesumare quel titolo, senza modificare una virgola, ma non per un’invasione militare. E non pochi, proprio in Occidente, salutavano con fiducia la “rivoluzione iraniana” contro l’imperialismo neocolonialista e corruttore degli Usa e contro il regime di Reza Pahlavi; una rivoluzione, si badi bene, guidata da iraniani a lungo esuli in Francia, nel cuore dell’Europa laica e progressista. 

Insomma, proviamo – quanto meno proviamo – a recuperare la dimensione della complessità. L’unica che può aiutarci a difendere e a promuovere alcuni punti fermi e irrinunciabili.

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