di Giuseppe Calderisi
Su gentile concessione dell’autore pubblichiamo questo articolo che uscirà su Civiltà Socialista
Autonomia: la sentenza della Corte demolisce la legge Calderoli ma colpisce e riscrive anche l’art. 116 del Titolo V. Legge residua inapplicabile: il referendum non ha più ragione politica e giuridica.
La sentenza della Corte costituzionale (n. 192/2024) sulla legge di attuazione dell’autonomia differenziata (legge n. 86/2024) è una pronuncia di grandissima rilevanza, un bagno salutare nella ragionevolezza che dovrebbe far riflettere tutti gli attori del singolare scontro politico che si svolge in Italia sul tema delle riforme, condizionato da eccessi di ideologismi (in particolare quello autonomista/federalista) e tatticismi (cioè il loro utilizzo per fini di politica contingente). Non si può infatti dimenticare che la modifica del titolo V (che Augusto Barbera ritenne allora “sgangherata”) fu approvata dal centrosinistra con solo quattro voti di maggioranza alla vigilia delle elezioni del 2001 per cercare di catturare il consenso della Lega Nord. La quale, peraltro, l’avversò con l’accusa di “svuotare il federalismo”, ma che poi ne ha fatto il suo vessillo.
La sentenza della Corte colpisce e reinterpreta molti aspetti essenziali della legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata (come vedremo più avanti), ma essa reinterpreta e riscrive anche l’articolo 116, terzo comma, della Costituzione. Infatti, per la Corte non sono trasferibili le materie, ma solo singole funzioni relative alle materie; e non per tutte le 23 materie cui si riferisce l’art. 116, terzo comma, perché la Corte ne esclude, di fatto, 8 di fondamentale importanza: commercio con l’estero; tutela dell’ambiente; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia; porti e aeroporti civili; grandi reti di trasporto e di navigazione; professioni; ordinamento della comunicazione e anche le norme generali sull’istruzione. Materie per le quali la devoluzione alle regioni non è in sostanza giustificabile in base al principio di sussidiarietà (posto a fondamento della sentenza) sia per “motivi di ordine giuridico, tecnico e economico” (esistenti anche nel 2001, n.d.r.), sia per l’intreccio di “stringenti vincoli” comunitari e internazionali “che si sono rafforzati” (ma erano già ravvisabili nel 2001, anche se non in questa dimensione n.d.r.) “a seguito dei cambiamenti che hanno investito settori rilevantissimi della vita politica, economica e sociale con le due rivoluzioni tecnologiche ‘gemelle’, la digitale e l’energetica che hanno determinato trasformazioni dirompenti nell’economia, nella società e di conseguenza anche nel sistema giuridico”. Si tratta di una riscrittura del testo costituzionale non dissimile dalle modifiche del titolo V contenute nelle riforma Renzi-Boschi del 2016 e anche in quella del centrodestra del 2006, riforme di carattere più ampio, entrambe bocciate dai due referendum confermativi.
La Corte ha reinterpretato l’art. 116, terzo comma, della Costituzione nel contesto della forma di Stato che si basa sui principi dell’unità della Repubblica, della solidarietà tra le regioni, dell’eguaglianza e della garanzia dei diritti dei cittadini e dell’equilibrio di bilancio. E ha di conseguenza imposto che l’attribuzione delle funzioni sia valutata, come detto, in base al principio di sussidiarietà, che funziona come una sorta di “ascensore”; e che la scelta del piano a cui fermarsi deve essere fatta in base a criteri di efficacia, efficienza ed equità, in modo da assicurare una maggiore responsabilità politica e a rispondere nel nodo migliore alle attese e ai bisogni dei cittadini. L’autonomia differenziata è dunque possibile nel rispetto di questi principi e può essere, anzi, opportuna e necessaria. Ma l’iniziativa della regione per ottenere la devoluzione va giustificata e motivata, anche attraverso “un’istruttoria approfondita, suffragata da analisi basate su metodologie condivise, trasparenti e possibilmente validate dal punto di vista scientifico”.
In questo modo la sentenza della Corte n. 192/2024 completa l’opera di riscrittura del titolo V iniziata con la famosa sentenza n. 303 del 2003 (sentenza “Mezzanotte”) che ha reinterpretato gli articoli 117 e 118 del titolo V, al fine di recuperare l’interesse nazionale abolito (follemente) dalla revisione del 2001 in particolare attraverso la c.d. “chiamata in sussidiarietà” estesa alla funzione legislativa, per cui è quest’ultima che deve seguire la funzione amministrativa e non viceversa (l‘abolizione dell’interesse nazionale fu concepita per “compensare” la mancanza di una Camera delle autonomie, un errore rovinoso che ne trascinò un altro).
La nuova sentenza della Corte, pertanto, dovrebbe imporre una riflessione profonda anche sull’esigenza imprescindibile di una Camera delle autonomie come sede di raccordo istituzionale tra Stato e Regioni volta a decidere “chi fa che cosa”, dato che il principio di sussidiarietà opera attraverso un giudizio di adeguatezza che è prevalentemente di natura politica (all’interno di determinati paletti) e non giurisprudenziali, evitando così di dover ricorrere continuamente alla Corte costituzionale in funzione di supplenza. E così pure per la tutela dell’interesse nazionale, occorre una clausola di supremazia che ne consenta l’attivazione politica (sempre all’interno di determinati paletti).
Con riguardo più specifico alla legge Calderoli, la Corte ha ravvisato ben sette profili di incostituzionalità e ha interpretato in modo costituzionalmente orientato altre cinque previsioni della legge. Come già indicato nel comunicato della Corte del 14 novembre, i profili di incostituzionalità riguardano:
La Corte ha invece interpretato in modo costituzionalmente orientato altre previsioni della legge Calderoli:
Alla luce della sentenza della Corte, della legge Calderoli rimane pertanto ben poco, un moncherino di fatto inapplicabile. E spetta al Parlamento, nell’esercizio della sua discrezionalità – come ha affermato la Corte – colmare i vuoti derivanti dall’accoglimento delle questioni di illegittimità costituzionale sollevate dai ricorsi, nel rispetto dei principi costituzionali, in modo da assicurare la piena funzionalità della legge.
La Corte ha infine tenuto a ribadire che essa resta sempre competente a vagliare la costituzionalità delle singole leggi di differenziazione, qualora venissero censurate con ricorso in via principale da altre regioni o in via incidentale.
Che sorte avranno, dunque, i due referendum promossi per abrogare totalmente o parzialmente la legge Calderoli? La decisione spetta in primo luogo all’Ufficio centrale per il referendum presso la Corte di Cassazione che deve valutare se la sentenza della Corte Costituzionale ha cambiato sostanzialmente “i principi ispiratori della complessiva disciplina” per quanto riguarda il referendum sull’intera legge, oppure “i contenuti normativi essenziali dei singoli precetti” per quando riguarda il referendum parziale, come prescrive la sentenza della Corte costituzionale n. 68 del 1978. Dato che la sentenza n. 192/2024 ha cambiato profondamente i principi ispiratori della legge Calderoli e i contenuti normativi essenziali delle specifiche parti oggetto del referendum parziale, non si vede come la Cassazione possa ritenere non superati entrambi i referendum. Lo svolgimento di un referendum del genere darebbe solo adito ad uno scontro inutile e insensato tra Nord e Sud, con il florilegio di tutti gli stereotipi anti-meridionali e anti-settentrionali, un referendum che quasi certamente non conseguirebbe il quorum perché svuotato di sostanza, e che probabilmente servirebbe solo a Landini per la contesa della leadership della sinistra in chiave massimalista.
Ma anche qualora la Cassazione dovesse decidere di dar corso ad un referendum su quel che resta della legge Calderoli, spetterebbe poi alla Corte costituzionale il giudizio sull’ammissibilità del referendum. Al riguardo, la legge n. 86/2024 non è certamente una legge costituzionalmente necessaria (perché essa non prevista dalla Costituzione e perché le intese per la devoluzione potrebbero essere realizzare con leggi ad hoc) e certamente non basta il collegamento solo formale con la legge di bilancio per dichiararne l’inammissibilità. Ma secondo la giurisprudenza costituzionale il quesito referendario deve avere anche il requisito della chiarezza, semplicità e non contraddittorietà, per essere intellegibile e non coartare la libertà di voto dell’elettore. Avrebbe tali requisiti un referendum riguardante un simulacro di legge inapplicabile di cui non sarebbe neppure ravvisabile la portata politica e giuridica?
Ma anche se il referendum fosse ammesso, la questione non finirebbe neppure qui. Infatti, qualora il Parlamento approvasse delle modifiche alla legge Calderoli per recepire la sentenza della Corte, spetterebbe ancora alla Cassazione il compito di valutare se tali modifiche sono idonee oppure o no a superare il referendum, trasferendo eventualmente il quesito anche sulla nuova legge. E spetterebbe ancora alla Corte costituzionale pronunciarsi sull’ammissibilità del nuovo quesito.
Come si vede, la storia dell’autonomia differenziata e dei relativi referendum potrebbe essere ancora molto lunga.
Già parlamentare radicale, di Forza Italia e del Popolo delle Libertà (tra il 1982 e il 2013). Promotore di numerosi referendum, in particolare quelli per la riforma della legge elettorale, è stato membro della Commissione bicamerale D’Alema e si è sempre interessato alle riforme istituzionali ed elettorali