di Marco Leonardi
Quando non si sa che pesci pigliare si invoca il partenariato pubblico privato (PPP) ovvero il finanziamento degli investimenti pubblici con una congiunzione di soldi pubblici e privati. Dovrebbe essere una buona idea visto che l’Italia è notoriamente un paese con grande ricchezza privata e grande debito pubblico. Ma purtroppo sono più i casi in cui il partenariato fallisce rispetto a quelli in cui funziona.
Recentemente ci ha provato Forza Italia proponendo il partenariato pubblico privato per risolvere il problema dei balneari. Suppongo si intenda in questo modo: invece di bandire una gara di una normale concessione per l’uso di una spiaggia demaniale, il comune dovrebbe fare un contratto di PPP in cui c’è una proposta di investimento e gestione da parte di un privato (il balneare). L’amministrazione delibera che tale proposta è di interesse pubblico dopodiché la mette a gara e se dovesse vincere un altro concorrente rispetto al proponente originario, quest’ultimo avrebbe un diritto di prelazione cioè potrebbe comunque aggiudicarsi il contratto a patto che decida di accollarsi la stessa medesima offerta del concorrente vincitore. Ed ecco magicamente aggirato il vincolo della concorrenza e risolto il problema dei balneari con il diritto di prelazione di chi già gestisce le spiagge. Peccato che non si facciano i conti su come funzionano i comuni, che fanno già fatica a fare una gara di concessione normale per l’uso di un bene pubblico figurarsi a fare una gara in partenariato pubblico-privato. Il punto vero è che se si continua a pretendere che i comuni facciano le gare, con tutte le grane e i ricorsi conseguenti, e lo Stato incassi i proventi, una facile previsione è che i comuni non faranno nessuno sforzo di aggiudicare alle migliori condizioni ma invece sceglieranno la linea di minor attrito con chi già ora gestisce le spiagge, visto che comunque non ne ricavano neppure un gettito.
Altro esempio. Il nuovo patto di stabilità impone dei limiti alla crescita della spesa pubblica molto stringenti e contemporaneamente prevede che dopo la fine del PNRR nel 2026 gli investimenti debbano mantenere lo stesso ritmo di crescita di adesso. La Commissione Europea si augura che si utilizzi con la leva maggiore possibile l’investimento privato in congiunzione a quello pubblico per alleviare il peso sul solo bilancio pubblico. Il partenariato pubblico privato è quindi la leva giusta.
Peccato che però la Commissione lo leghi a un Libro verde sui partenariati pubblico privati di vent’anni fa quasi a voler dire che non richiede norme stringenti, lo considera un istituto negoziale e flessibile. L’Italia nel nuovo codice appalti (che ricordiamo fu scritto dal Consiglio di Stato sotto il governo Draghi) ha deciso diversamente e a mio parere giustamente, ha dato delle regole più chiare a un istituto del PPP che non aveva regole chiare. Ma le regole non bastano, perché i paesi hanno diverse culture giuridiche e amministrative. Il PPP è diffuso nella cultura anglosassone dove il pubblico normalmente lavora insieme al privato ed esercita grande discrezionalità nelle decisioni senza temere contraccolpi giudiziari. Da noi il problema è caso mai inverso: la pubblica amministrazione ha una cultura autorizzativa e non collaborativa con il privato e le pubbliche amministrazioni che maneggiano progetti in partenariato sono sempre esposte al danno erariale perché l’autonomia del loro giudizio è molto più ampia (devono deliberare che un progetto presentato da un privato costituisce un interesse pubblico generale!).
La legislazione cerca di favorire il PPP in ogni modo ma a volte la giustizia finisce per penalizzarlo in modo quasi irreparabile, come per esempio in una recente sentenza del Consiglio di Stato che ha affermato che in caso di esercizio del diritto di prelazione, il progetto del concorrente deve essere identico non soltanto nelle offerte economiche ma anche nelle condizioni tecniche. Potete ben capire che nei progetti complessi uguagliare e perfino superare le condizioni economiche è possibile, ma uguagliare le condizioni tecniche di un progetto per imprese che hanno tecnologie completamente diverse diventa impossibile.
Cerchiamo di imparare qualche lezione da progetti PPP recenti, uno di questi è la metropolitana 4 di Milano (M4). Un esempio virtuoso dal punto di vista tecnologico e anche di gestione del progetto. Lì non c’è stato il problema di una PA restia, ma c’è stato un altro problema molto comune: che pur di concludere il contratto si sottovaluta la spesa corrente della PA dopo la costruzione dell’opera. Il progetto aveva previsto un’utenza più alta di quella che si è in effetti realizzata e il Comune non vuole aumentare il prezzo delle tariffe e quindi il canone annuale che il comune deve pagare ai privati per la gestione della metropolitana è diventato insostenibile. Alla fine il Comune di Milano ha comprato tutte le quote della società, e M4 da PPP è diventato sostanzialmente un in house.
Professore di economia politica all’università degli Studi di Milano, si occupa di disoccupazione e diseguaglianze. E’ stato tra gli anni 2015 e 2018 membro del comitato tecnico di valutazione della Presidenza del Consiglio e consigliere economico del Presidente Gentiloni. Ha scritto un libro sulle riforme di quegli anni dal titolo “le riforme dimezzate, perché su lavoro e pensioni non si può tornare indietro”, EGEA 2018. Fa parte della Presidenza Nazionale di Libertà Eguale.