di Salvatore Curreri
Il disegno di legge “Zan” è inutile, repressivo e ambiguo, come sostengono i suoi detrattori? Oppure è opportuno, come autorevolmente affermato l’altro ieri dal Presidente della Corte costituzionale Coraggio (nomen omen)?
Per rispondere a questa domanda occorre approfondire il tema sotto un profilo strettamente giuridico. Operazione non facile e magari noiosa per il rischio di cadere in sottigliezze ai più incomprensibili. Eppure analizzare il testo della proposta, concentrarsi sui suoi singoli termini – che nel diritto non sono mai spese a caso anche in forza del significato che loro deriva da consolidate tradizioni interpretative giurisprudenziali – mi sembra l’unico modo per fare ordine su un disegno di legge certo perfettibile ma che sicuramente non merita le accuse, inesatte e semplificatorie, veicolate in modo facile e strumentale da una certa propaganda politica. Ci provo.
Si dice: il ddl Zan è inutile perché le disposizioni per punire comportamenti violenti o discriminatori già esistono. Vero, perché è ovvio che menare un gay è già reato. Ma il ddl Zan non tratta di questo. Tratta di chi istiga a commettere tali reati. Certo, la repressione sessuale non si supera con la repressione penale. Ed è per questo (e solo in questo senso) che il ddl Zan punta ad un’attività educativa da svolgere anche nelle scuole per prevenire le discriminazioni. Ma è indubbio che il legislatore deve intervenire di fronte ad un fenomeno che, proprio in assenza di specifiche fattispecie di reato, è statisticamente sottostimato (come confermato dall’Osservatorio della Polizia di Stato contro le discriminazioni) e specialmente presente nei social network dove, per malinteso senso di impunità, è più reale e concreto il pericolo che – per così dire – le parole si trasformino in pietre. Mai dimenticare McLuhan: il mezzo è parte integrante del messaggio.
Le parole, giustappunto. Per i contrari il ddl Zan è un testo ideologico, lesivo della libertà di espressione garantita dall’art. 21 Cost., perché non definisce, con la determinatezza propria della legge penale, quali siano gli atti discriminatori e, di conseguenza, quali opinioni vanno considerate reato perché idonee a determinare il concreto pericolo di loro compimento. Falso.
Innanzi tutto il ddl Zan non introduce una nuova fattispecie di reato. Piuttosto estende i delitti già previsti contro l’eguaglianza, aggiungendo ai già previsti motivi “razziali, etnici, nazionali e religiosi”, quelli per sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere o disabilità. Quindi quanti sostengono che si tratti di una proposta di legge repressiva della libertà di espressione dovrebbero per coerenza estendere la loro accusa d’incostituzionalità all’intera disciplina in materia (la c.d. legge Reale-Mancino oggi trasfusa nell’art. 604-bis) e, dunque, invocare sempre e comunque libertà di parola anche in materia razziale, etnica, nazionale o religiosa. Non lo fanno perché (forse) sanno – come vedremo – di avere contro tutta la giurisprudenza.
In secondo luogo ad essere sanzionata per i nuovi motivi che si vorrebbe introdurre (sesso, genere, ecc.) non è la propaganda di idee ma l’istigazione a commettere atti discriminatori. Tra i due concetti c’è, giuridicamente parlando, un abisso. Non deve trattarsi di semplici opinioni ma di parole che, per portata istigativa, rischiano di tradursi o si sono tradotte in concreto in azioni discriminatorie, secondo uno stretto, diretto, consequenziale nesso di causalità. Insomma verrebbe punito il dicere diretto a tradursi (o già tradottosi) in facere. Insomma, è e rimarrà pienamente legittimo affermare (magari durante un’omelia) l’eterosessualità del matrimonio o criticare le adozioni omosessuali e l’utero in affitto (già vietati), mentre non sarà più possibile aizzare (magari davanti ad un noto luogo di ritrovo degli omosessuali) contro di loro l’odio dell’opinione pubblica per i loro comportamenti ritenuti contrari al buon costume o perché per loro natura pedofili.
Per fugare ogni dubbio in merito, in prima lettura alla Camera è stato approvato un emendamento c.d. salva idee (presentato dal forzista Costa) in base al quale “ai fini della presente legge, sono fatte salve la libera espressione di convincimenti od opinioni nonché le condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, purché non idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Si continua ad obiettare: tale articolo non risolve nulla perché rimane incerto quali siano gli atti discriminatori e, di conseguenze, le opinioni da vietare perché in grado di determinare il concreto pericolo di loro compimento. Alla fine quindi sarebbe sempre il giudice a distinguere tra opinioni riconducibili al pluralismo delle idee e quelle istigatrici all’odio e alla violenza.
Ora, premesso che non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire e che sembra pretendersi dal legislatore un tasso di specificità che contrasta con la connaturata generalità ed astrattezza di ogni disposizione normativa – penale inclusa –, è proprio la consolidatissima giurisprudenza costituzionale e ordinaria sui c.d. reati di opinione a dimostrare quanto simili preoccupazioni siano infondate. Anzi, proprio la definizione di pericolo concreto affidata alla valutazione del giudice, entro i marcati confini tracciati da tale giurisprudenza, è di gran lunga più garantista rispetto ad un pericolo astratto predeterminato dal legislatore.
Tali reati di opinione, tra l’altro ormai in gran parte abrogati o depenalizzati, non contrastano con la libertà d’espressione nella misura in cui l’autore vuole andare oltre la critica, sempre legittima ancorché radicale, per tradursi in un “comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti” (Corte cost., 65/1970; v. anche 126/1975). È quello che la Corte suprema USA definisce “pericolo chiaro ed imminente” (clear and present danger). Per questo occorre sempre “valutare la concreta ed intrinseca capacità della condotta a determinare altri a compiere un’azione violenta con riferimento al contesto specifico e alle modalità del fatto” (Cass., I pen. 42727/2015). Ad essere puniti per motivi discriminatori non sono stati mai i sentimenti di generica antipatia, insofferenza o rifiuto, tutelati dalla libertà d’espressione ex art. 21 Cost., quanto le opinioni idonee “a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori” (Cass., III pen. 36906/2015) perché esprimono una manifesta volontà d’incitamento all’odio dirette a creare in un vasto pubblico, come nel caso della diffusione ed amplificazione veicolata dai social network, il concreto pericolo del compimento di atti d’odio e di violenza (Cass., VI pen. 33414/2020).
I reati d’istigazione a compiere atti discriminatori non si pongono, dunque, in contrasto con la libertà d’espressione perché “l’incitamento ha un contenuto fattivo di istigazione ad una condotta, quanto meno intesa come comportamento generale, e realizza un quid pluris rispetto ad una manifestazione di opinioni, ragionamenti o convincimenti personali” (Cass., V pen. 31655/2001). Il lettore spero mi perdonerà questa sfilza di citazioni giurisprudenziali, ma credo sia l’unico modo, argomentato e convincente, per dimostrare quanto giuridicamente infondati siano, almeno sotto questo profilo, i timori espressi contro il ddl Zan.
Infine l’ultima accusa: l’ambiguità perché il ddl Zan introdurrebbe un concetto – l’identità di genere – cioè la percezione che si ha del proprio sesso anche se non corrispondente a quello biologico o anagrafico – sconosciuta al nostro ordinamento. Falso anche in questo caso.
In base ad una legge del 1982 (!) ciascuno, in nome del proprio diritto alla salute psico-fisica e all’autodeterminazione della propria identità sessuale, può cambiare anagraficamente sesso, senza che oggi occorra più modificare chirurgicamente i propri connotati sessuali (il soma). Ciò a seguito di un iter giudiziale in cui la semplice dichiarazione del soggetto di appartenere psicologicamente ad un sesso diverso (self-id) non deve avere di per sé rilievo esclusivo o prioritario (così Corte cost. n. 180/2017, ma v. anche la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo 10.3.2015, Y.Y. c. Turchia).
L’identità di genere è quindi già riconosciuta nel nostro ordinamento e chi ritiene che basti proclamarsi di un sesso diverso per esserlo dimostra ancora una volta non solo la propria ignoranza giuridica ma di avere una visione strumentale e caricaturale di temi e percorsi esistenziali senz’altro meritevoli di maggiore rispetto.
Pubblicato su Il Riformista, il 15 maggio 2021