di Vittorio Ferla
2016-2019: tre anni dopo la sconfitta referendaria c’è ancora bisogno di una grande riforma
Il 5 dicembre di tre anni fu per molti un brutto risveglio. La maggioranza degli italiani, dicendo “No” al referendum costituzionale, aveva respinto la riforma che avrebbe potuto (finalmente) migliorare il rendimento delle nostre istituzioni. Il voto del 4 dicembre 2016 fu, nei fatti, un grande, enorme “vaffa” che sconvolse la politica italiana. Il suo valore fu pari, forse, all’elezione di Trump per gli Stati Uniti o al “sì” alla Brexit per il Regno Unito. Nel nome della difesa della “Costituzione più bella del mondo”, i populisti nostrani fecero il pieno. Fu la vittoria della resistenza, forse, ma di quella contro la modernità: una resistenza con la “R” minuscola. L’occasione che avrebbe permesso al nostro paese di modernizzare le proprie istituzioni – rafforzando le prerogative del parlamento, aumentando l’efficacia e la stabilità dei governi, acquisendo maggiore forza nel consesso europeo – andò in fumo. I motivi di questo risultato furono diversi – gli errori di Renzi, l’ostilità dei partiti di opposizione e dei nemici interni, il populismo diffuso anche a livello delle classi dirigenti e della stampa nazionale – ma qui serve a poco tornarci su.
Da quanto tempo si parla di riforme
Il percorso per arrivare a quel referendum era stato molto lungo. Di riforme in Italia, infatti, si comincia a parlare dalla fine degli anni ’70. L’omicidio di Aldo Moro sembrò per molti uno spartiacque che sanciva la fine della Prima Repubblica. Questa, in realtà, si trascinò stancamente, quasi per inerzia, fino al crollo del Muro di Berlino e alla stagione di Tangentopoli: i due fatti – uno internazionale, l’altro interno – che provocarono il crollo del sistema politico italiano emerso dalla fine della Seconda Guerra mondiale. Nel corso degli anni ’80 era stato Bettino Craxi, leader del Psi, ad aprire il dibattito sulle Grande Riforma. Alfiere del riformismo oltre che mente machiavellica, Craxi aveva intuito che il sistema istituzionale italiano aveva bisogno di profondi cambiamenti. A partire dall’elezione diretta del Presidente della Repubblica. Pci e Dc si opposero a questo disegno, derubricato alla pura a semplice provocazione di un leader “con gli stivali”.
Nel 1989, il Congresso di Bari della Fuci lanciò l’idea di un referendum per la riforma elettorale in senso maggioritario. L’obiettivo era quello di uscire dalla palude della proporzionale con i suoi governi di coalizione, di norma instabili e inconcludenti, per restituire ai cittadini il potere di scegliere i governi, dando a questi la capacità di portare a termine il loro programma. La proposta fu cavalcata da Mario Segni e dal movimento referendario. I referendum elettorali del ’91 e del ’93 diedero così la scossa al sistema. Grazie a una nuova legge elettorale – il famoso Mattarellum, oggi reputato dai più come il migliore sistema che il nostro paese abbia mai adottato – fu avviata una nuova fase di vita della nostra Repubblica: quella della democrazia dell’alternanza e del bipolarismo tra destra e sinistra. Le novità riguardarono anche i livelli locali e regionali. Dal 1993 i comuni italiani votano sulla base di un doppio turno con elezione diretta del sindaco: il meccanismo funziona talmente bene che nessuno si sogna oggi di modificarlo. Nelle regioni si è affermato un sistema diverso che mantiene un turno unico proporzionale ma prevede l’elezione diretta del Presidente della Regione: anche in questo caso, il sistema funziona discretamente e nessuno, infatti, pensa di cambiarlo.
A livello nazionale, però, è andata diversamente. Tra referendum falliti, interventi a gamba tesa della Corte costituzionale e riforme elettorali pessime, costruite per danneggiare l’avversario, la dinamica politico-istituzionale si è avvitata su se stessa. La democrazia italiana mantiene – per fortuna! – la logica virtuosa dell’alternanza, ma i governi sono sempre più deboli, incoerenti e rissosi. Dopo il “barbarico” No al referendum costituzionale, l’attuale legislatura, con la vittoria dei populismi (e la crescita esponenziale del M5s e della Lega), riesce a esprimere soltanto esecutivi strampalati e deliranti.
L’instabilità dei governi in Europa
Un tempo, in Europa, l’instabilità dei governi e la confusione della sua linea politica era considerata una caratteristica tipica del nostro paese. Oggi, però, non è più così. Se quello italiano resta il sistema più dissestato e balordo d’Europa, la corsa degli altri verso il peggio è diventata frenetica. Il Belgio detiene il record di lentezza per la formazione di un governo dopo elezioni politiche: 563 giorni, 19 mesi. L’Olanda è ridotta quasi allo stesso modo. La Spagna vota e rivota di mese in mese per garantirsi un governo, ma senza venirne a capo. La Danimarca è guidata da un esecutivo ultraminoritario sostenuto da una pletora di partitini. La Germania è costretta da anni a governi di Grosse Koalition che finora hanno avuto l’effetto sicuro di indebolire i due contraenti del patto (e la Spd è ormai sull’orlo di una crisi di nervi). Peggio di tutti sta forse il Regno Unito che da tre anni prova a sganciarsi dall’Europa ma con il solo risultato di rendere sempre più deboli e sgangherati i suoi governi.
Che cosa sta succedendo, dunque, ai paesi europei? Come ha spiegato di recente il costituzionalista Carlo Fusaro, “succede che il regime parlamentare non è più in grado di garantire quelle prestazioni minime di unità e di governo che una nazione ha diritto di attendersi”. In pratica “garantire maggioranze adeguate nelle assemblee delle democrazie parlamentari europee è diventata un’impresa sempre più difficile e di rendimento sempre più basso. Non solo nessuna forza politica riesce a raggiungere i consensi sufficienti a governare da sola, ma le coalizioni sono diventate di formazione e gestione più difficile, quando non impossibile alla radice.” C’è il rischio insomma che il funzionamento dei governi parlamentari in Europa sia ormai compromesso.
L’eccezione Francia
C’è un’eccezione, però. Ed è la Francia. Lì vige un sistema semipresidenziale basato su un doppio turno elettorale: in pratica, prima si vota per il partito preferito e poi, nel ballottaggio tra i primi due, si vota per il governo (il Presidente della Repubblica è anche il capo dell’esecutivo). Il sistema è fortemente “disproporzionale”, certo, ma permette la formazione di governi stabili ed efficaci. Non a caso Emmanuel Macron è oggi, di fatto, il leader europeo più forte e rappresentativo. In patria ha la forza necessaria per governare il paese e reagire nei momenti di crisi (ricordate la tormentata vicenda dei gilet gialli?). In Europa e nel mondo (ricordate la recente polemica sulla Nato?) ha l’autorevolezza per far pesare le proprie idee. Insomma, l’investitura diretta del governo da parte dei cittadini è un passaggio indispensabile.
Prima o poi – ma sarebbe meglio prima – l’Italia dovrà tornare a porsi il problema del funzionamento delle proprie istituzioni in un contesto che richiede rapidità e determinazione in tutte le decisioni. E, non appena ricomincerà a farlo, sarà bene prendere esempio dalla Francia.
Giornalista, direttore di Libertà Eguale e della Fondazione PER. Collaboratore de ‘Linkiesta’ e de ‘Il Riformista’, si è occupato di comunicazione e media relations presso l’Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale del Lazio. Direttore responsabile di Labsus, è stato componente della Direzione nazionale di Cittadinanzattiva dal 2000 al 2016 e, precedentemente, vicepresidente nazionale della Fuci. Ha collaborato con Cristiano sociali news, L’Unità, Il Sole 24 Ore, Europa, Critica Liberale e Democratica. Ha curato il volume “Riformisti. L’Italia che cambia e la nuova sovranità dell’Europa” (Rubbettino 2018).