di Salvatore Curreri
Duecentotré cambi di gruppo alla Camera, 90 al Senato, talora da parte di stessi parlamentari (ad esempio i 4 cambi del deputato Silli e gli addirittura 9 del senatore Cario). Un gruppo misto per consistenza numerica quinto alla Camera (80 deputati) e quarto al Senato (39 senatori), pari al 12% circa delle rispettive assemblee, a propria volta alla Camera suddiviso in 6 componenti politiche, costituite da forze politiche nate in corso di legislatura talora ai più pressoché sconosciute (Centro democratico; Europeisti-Movimento Associativo Italiani all’Estero-Partito socialista; Cambiamo!-Popolo protagonista; Azione-+Europa-Radicali italiani e le ultime due new entry: L’alternativa c’è e Facciamo Eco-Federazioni dei Verdi), le quali peraltro cambiano spesso di denominazione a seconda di chi vi entra e chi vi esce (per i dati specifici ed aggiornati rimando alla sezione Gruppi in movimento da me curata su lacostituzione.info).
È questo lo scenario cui il neo segretario del Partito democratico ha fatto l’altro ieri riferimento preannunciando, tra le altre, un’iniziativa politica per combattere il transfughismo parlamentare. Vasto programma – obietterebbe qualcuno – soprattutto considerando che il trasformismo è la cifra peculiare del nostro sistema parlamentare, specie da quando non più bipolare. Non a caso in questa legislatura i suoi picchi si sono registrati in occasione delle due crisi di governo, proponendosi come loro soluzione. Ma il prezzo che la democrazia paga in termini di credibilità e rappresentatività è altissimo. Il problema del passaggio dei parlamentari da un gruppo politico ad un altro, magari appositamente costituito, è difatti questione che attiene, ancora prima che alla governabilità del paese, alla rappresentanza politica degli elettori che, dopo aver votato per i candidati di un certo partito (tanto più in liste bloccate), di fronte alle loro “evoluzioni” politiche si sentono traditi del loro voto, defraudati della loro sovranità e confermati nei sentimenti di disaffezione della politica, specie quando dettate da scopi personali ammantati con ragioni politiche. Non va dimenticato, infatti, che il parlamentare che cambia gruppo non solo non viene penalizzato ma, specie quando costituisce un nuovo gruppo politico (grazie anche a benevole interpretazioni dei requisiti regolamentari da parte del Presidente della Camera), acquisisce vantaggi non indifferenti non solo in termini di visibilità politica e parlamentare ma anche di autonoma disponibilità di risorse finanziarie e strutturali.
Ebbene, le soluzioni per arginare tale fenomeno ci sono. Se le forze politiche volessero superare l’indignazione di comodo che li porta a bollare come traditori i parlamentari che escono dai loro gruppi (salvo accogliere a braccia aperte quelli che invece vi entrano) potrebbero ad esempio sottoscrivere una sorta di patto-antitransfughismo con cui si impegnano reciprocamente a non accogliere o candidare parlamentari che abbiano cambiato casacca. Ma, siccome non siamo così ingenui, si potrebbe intervenire sui regolamenti parlamentari, cominciando ad estendere alla Camera la regola – vigente da questa legislatura al Senato – per cui i gruppi parlamentari devono corrispondere ai partiti politici che si sono presentati alle elezioni ed hanno ottenuto eletti. Tale regola potrebbe essere magari meglio formulata per evitarne quelle interpretazioni fraudolente che hanno scatenato un certo non commendevole mercato dei simboli elettorali, che ha consentito alla Camera la formazione di componenti politiche del misto da parte di forze politiche che non avevano ottenuto eletti e al Senato la formazione del gruppo di Italia Viva al Senato grazie al decisivo uso del simbolo del Partito socialista.
Ma si potrebbe fare anche di più: ad esempio obbligare i parlamentari che hanno abbandonato il gruppo del partito nelle cui liste sono stati eletti ad iscriversi solamente al gruppo misto; oppure, per evitare i problemi organizzativi legati all’abnorme numero dei suoi componenti, abolirlo del tutto, costringendo il transfuga allo stato di non iscritto, come avviene nel Parlamento europeo ed in alcune Comunità autonome spagnole, con conseguenti penalizzazioni procedurali e politiche.
Per evitare che simili restrizioni finiscano per ingessare il quadro politico, impedendone le possibili successive evoluzioni (come quelle pur registratesi in questa legislatura) si potrebbe poi consentire la costituzione di nuovi gruppi in corso di legislatura purché formati da un numero di parlamentari superiore al minimo richiesto; ciò nella presunzione che una simile consistenza dimostri che essi non siano frutto di trasformismi individuali ma di scissioni provocate dal radicale mutamento di linea politica del partito di riferimento che abbiano un’effettiva corrispondenza in parte del suo elettorato.
Tutte soluzioni compatibili con la libertà di mandato del parlamentare sancita dall’art. 67 Cost. perché in ogni caso gli consentirebbero di restare in carica, senza perdere il seggio, anche dopo aver cambiato gruppo. Libertà di mandato che non vuol dire diritto di costituire nuovi gruppi politici in corso di legislatura, veri e propri partiti parlamentari espressione della volontà degli eletti anziché degli elettori. Tutte soluzioni, peraltro, che le forze politiche dovranno prima o poi prendere in considerazione dato che la riduzione del numero dei parlamentari, dalla prossima legislatura, impone di rivedere i requisiti per costituire i gruppi politici in ciascuna Camera. Quello della rappresentanza politica è un tema complesso. Ridurlo oggi al vecchio ritornello del parlamentare libero interprete della volontà della Nazione significa avere una concezione un po’ datata ed aristocratica della democrazia rappresentativa.
Pubblicato su Il Riformista, il 16 marzo 2021, p. 7
Professore in Istituzioni di Diritto pubblico e coordinatore del Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza nella Facoltà di Scienze Economiche e Giuridiche – Libera Università degli Studi di Enna “Kore”