C’è da chiedersi il motivo per cui nel Manifesto Laburista per l’Italia da poco diffuso, in larghissima misura condivisibile, e recante sottoscrizioni importanti-anche io ho chiesto di firmarlo-non venga fatta menzione in alcun modo e in nessuno dei capitoli in cui è articolato il programma della sinistra riformista, sottoposto all’attenzione pubblica.
Escluderei la disattenzione così come pure la sottovalutazione: specialmente in riferimento al dibattito sostenutissimo che da anni ormai attraversa l’intero paese sul così detto regionalismo differenziato, e alla luce della recentissima presentazione del puntuale, annuale Rapporto Svimez.
La parcellizzazione che frazionerebbe il paese in tanti atolli ad accelerazioni, e conseguenti decelerazioni, autonome figlia della modifica costituzionale voluta più di venti anni fa dal governo di centrosinistra, merita attenzione e ripulsa, al riparo, s’intende, da riproposizioni peraltro improponibili di vittimismi e altrettante sirene assistenzialiste.
Il mezzogiorno d’Italia è tante cose, contiene al suo interno sacche di arretratezze secolari e di ritardi sempre più divaricanti: è la parte del paese in recessione e con previsioni nel breve-medio termine che definire buie è dir poco-dati Svimez alla mano. Con giovani che se ne allontanano progressivamente e intere aree in via di desertificazione, risorse finanziarie ingenti a disposizione non spese o spese male, ma è pure un serbatoio di intelligenze che rifiutano l’assimilazione Sud-malaffare così come quella secondo la quale a sud di Roma non c’è futuro. È nel cuore del Mediterraneo, una porta verso l’Oriente.
Una lettura economicistica che lo voleva come luogo del consumo dei beni prodotti al nord ha da tempo perso attendibilità mentre le condizioni infrastrutturali e dei servizi, ridotti a una loro rappresentazione parametrica quanto nei fatti inconcludente di una serie di acronimi tipo Lep et similia, non possono essere espunti da una considerazione e valutazione dentro un quadro unitario, di progetto.
Molto si insiste sul deficit, anche a ragione, delle classi dirigenti e della politica locale, sull’assenza di strutture civili e di corpi intermedi nel tempo aggravatesi, ma individuare in tali ambiti esclusivi le responsabilità del ‘ritardo’ di sviluppo è non solo ingeneroso ma falso. A voler esaminare a titolo esemplificativo la bassissima capacità di spesa e di progettualità da parte delle Regioni meridionali, denunciare il fatto senza unirlo alla proposta di un osservatorio o cabina di coordinamento in grado di accompagnare azioni e interventi è proprio di una visione mistificatoria, che confonde lo Stato con l’azienda: laddove si possono tagliare i rami secchi mentre una Nazione deve prevedere strumenti efficaci di solidarismo non ipocriti bensì improntati all’efficienza.
Un impianto laburista, socialdemocratico, riformista non può espungere la Questione Meridionale, tantomeno dalle sua fondamenta, quando potrebbe aprirsi una nuova stagione.
Se non c’è sottovalutazione né disattenzione sarebbe bene parlarne, perché una integrazione sarebbe, è, necessaria, è dovuta.