di Claudia Mancina
Berlinguer incarnava, agli occhi dei suoi seguaci e non solo, le peculiarità del comunismo italiano: la vocazione nazionale, la capacità di apertura, l’ambizione di interpretare e rappresentare non solo la classe operaia, ma tutti i ceti in senso lato produttivi, quella che veniva considerata la parte sana del paese. Si tratta di caratteri già presenti nel partito nuovo togliattiano (compresa l’apertura ai cattolici e ai ceti medi), ma declinati in modo nuovo e più moderno, con la consapevolezza che i concetti marxisti erano una moneta sempre più consumata nel contesto culturale degli anni Settanta. Ciò che invece era proprio di Berlinguer era il suo carattere personale, il suo modo di presentarsi, che era nuovo e diverso. Complice la televisione, fu capace di ricavarsi un profilo incomparabilmente più umano, più autentico, più comunicativo, che lo rese accetto anche a chi non avrebbe mai votato comunista. Neanche i più feroci anticomunisti avrebbero mai detto di lui quello che avevano detto di Togliatti: che era freddo, antipatico, machiavellico fino al cinismo.
Berlinguer fu l’uomo giusto per un partito che, dopo la presa di distanza dall’invasione sovietica della Cecoslovacchia, vedeva arrivare in gran numero nelle sue file giovani, professionisti, intellettuali. Si potrebbe dire che fu a metà strada tra un tradizionale capo comunista e un leader moderno. Da qualunque punto di vista, la sua figura rende del tutto implausibile l’attuale polemica contro il leaderismo condotta da una parte non piccola della sinistra. Il Partito comunista non ha mai avuto alcuna remora a identificare la sua storia gloriosa con la successione dei suoi capi: Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer, i cui nomi si invocavano in quest’ordine nei cortei.
Berlinguer era un capo carismatico, se mai ce ne fu uno. Ma per quanto carismatico, non era certo immune dalle critiche. Anch’io lo criticavo: da intellettuale astratta com’ero, lo trovavo confuso e cedevole sul piano teorico. Della mia breve e confusa militanza nel movimento studentesco romano conservavo un certo estremismo pseudorivoluzionario. Entrando nel Pci nel 1973, mi venne del tutto naturale collocarmi piuttosto a sinistra, in un’area vagamente ingraiana. Ero rigorosamente marxista e non amavo il moralismo; nemmeno mi piacque quel sentore di conservatorismo che emanava dalle sue parole, come nel discorso sull’austerità. A quel punto avevo fatto esperienza del movimento delle donne e capivo che la libertà, la crescita vitale delle opportunità e, sì, anche dei consumi erano qualcosa a cui non si poteva chiudere la porta: erano i valori e le aspirazioni dei nuovi movimenti, dei giovani e delle donne, dei popoli postcoloniali. Era il presente, e sentivo che il Pci in quel presente non si trovava a suo agio.
La voce del presente la sentivo piuttosto nel gruppo del Manifesto, per il suo legame con gli studenti e per il suo rifiuto del socialismo reale. E tuttavia non mi riusciva di legarmi a nessun gruppo: il fascino del grande partito era troppo forte. Collaboravo a Critica marxista, la rivista teorica del partito, ed ero vicina a Tortorella e Chiarante; frequentavo, nelle riunioni di redazione, i grandi nomi del marxismo italiano. È stato da quella prospettiva un po’ particolare che ho vissuto gli anni del compromesso storico, e poi quelli del terrorismo e della solidarietà nazionale, e poi gli ultimi anni di Berlinguer, quelli della diversità comunista.
La strategia del compromesso storico aveva lasciato anche me, come tanti, perplessa, così come la tepidezza sulla legge del divorzio e il tentativo di evitare il successivo referendum. Ma prima la vittoria referendaria e, poi, soprattutto il clamoroso risultato elettorale del 1976 – il 34,4% – spazzarono via tutti i dubbi e le riserve. Il Pci era ormai prossimo al governo; la fine del trentennale dominio democristiano era a portata di mano!
È difficile immaginare quale fosse il nostro entusiasmo in quei giorni. «È ora, è ora, è ora di cambiare! Il Pci deve governare!» E lui, Enrico, con il suo stile scabro e discreto, incarnava il senso di una svolta storica. Storica nel senso più profondo: era il punto d’arrivo della vicenda del Partito comunista italiano, e quindi della storia d’Italia. Per questo si poteva essere fino in fondo berlingueriani e fino in fondo togliattiani, anche se il linguaggio, lo stile, le politiche dei due leader erano così diversi. La storia del Pci appariva un continuum, come quella della Chiesa cattolica. Eppure la posta in gioco della direzione berlingueriana era del tutto diversa da quella togliattiana. Per il Migliore, l’obiettivo era stato l’integrazione delle classi lavoratrici nel tessuto nazionale; il suo strumento principale la Costituzione. Per Berlinguer l’obiettivo fu, sin da quel 1973 cileno, il governo. Andare al governo. Non come un normale Partito socialdemocratico, naturalmente; ma attraverso una strategia inedita, anomala, ritagliata sulle caratteristiche speciali della situazione italiana, o del «caso italiano», come si diceva allora. Il caso italiano richiedeva una strategia di alleanze tra le grandi forze politiche del paese (ma non era qualcosa di simile a una grande coalizione? la domanda oggi è inevitabile; più difficile la risposta). Perché non si poteva «governare col 51%».
Le sfortunate vicende del compromesso storico sono ben note. La difficile trattativa con la Dc, la guerriglia socialista, infine la tragedia di Moro. In capo a tre brevi anni, l’entusiasmo del 1976 era spento, la delusione del popolo comunista era grandissima. Nei più vecchi, cresciuti con l’idea che l’avvento al potere fosse una rottura rivoluzionaria, che si erano trovati di fronte a una logorante coabitazione con la Dc; ma anche in noi più giovani, che confusamente ci aspettavamo l’apertura al mondo contemporaneo, la fine del grigiore democristiano, la sprovincializzazione del paese. Ci aspettavamo un’aria nuova, quella che avevamo respirato nei movimenti degli studenti, nelle riviste, nei libri che arrivavano dall’America o dalla Francia. Ci ritrovammo invece a misurarci con la realtà tipicamente italiana: si sgranavano in un tempo troppo lungo rituali politici poco comprensibili e inconcludenti, mentre si diffondevano voci di complotti e congiure, e gli studenti prendevano una deriva violenta e diventavano – per la prima volta! – un inequivocabile nemico del Pci. Il partito, più che governare, sembrava caduto nelle grinfie della Dc.
Poi venne la svolta di Salerno e la rottura. Da allora il Pci si mise stabilmente su un piano inclinato (nel decennio Ottanta non fece che perdere voti), mentre Berlinguer, sempre più solo, viveva gli ultimi anni della sua vita inseguendo una politica apparentemente del tutto diversa da quella del compromesso storico: l’alternativa, la diversità comunista… Intanto l’infelice duello con Craxi diventava sempre più feroce. L’estrema tensione politica di quegli anni Berlinguer l’ha incarnata caratterialmente e anche fisicamente. La sua indiscutibile dirittura morale, la sua onestà, il suo coraggio politico (ci voleva coraggio per andare a sfidare i sovietici nella loro tana, come fece nel 1977), si leggevano sul suo viso scavato, si materializzavano nel suo tratto aristocratico ma privo di qualunque arroganza. Paradossalmente, mentre era più debole sul piano politico, il suo carisma aumentava; diventava un personaggio presente nella vita quotidiana degli italiani come mai era accaduto prima né accadrà dopo di lui a un leader della sinistra.
Amai il secondo Berlinguer ancora meno del primo. Mi sembrava che l’accentuato moralismo coprisse una mancanza di politica; mi sembrava che, sotto il grande prestigio del segretario, la forza del partito si stesse logorando. Pensavo che la politica dovesse essere più trasparente, che un grande partito non potesse fare a meno di un confronto limpido e anche duro tra le diverse posizioni. Il mito dell’unità mi sembrava sempre più una camicia di forza. E inevitabilmente mi allontanavo da quella sinistra interna che si mostrava sempre più sterile, e che comunque alla fine appoggiava sempre la segreteria, per contrastare la cosiddetta destra. Che forse era troppo legata ai socialisti, ma certo era ricca di idee che sarebbe valso la pena discutere senza pregiudizi.
La morte, quella drammatica morte sul palco di un comizio, salvò Berlinguer da un più triste declino, e lo consegnò al mito. Ricordo ancora l’emozione provata il giorno dei funerali. Un’emozione profonda, condivisa con migliaia di persone venute a piazza San Giovanni a piangere un leader, ma anche un partito. Credo che tutti sapessimo, quel giorno, che stavamo celebrando non solo la morte di Berlinguer, ma la fine del Pci. Che infatti arrivò, solo cinque anni dopo.
Quel mito dura ancora. Per gli ex comunisti Berlinguer è e resterà il segretario che li ha portati a vincere (negli anni della Prima Repubblica, infatti, vincere non significava avere la maggioranza per governare, ma avere un buon risultato proporzionale). Per uno strano strabismo, provocato dalla nostalgia, non vedono che è soprattutto il segretario che non è riuscito a cogliere il frutto della vittoria, che ha dovuto registrare il fallimento della solidarietà nazionale e tornare all’opposizione.
Berlinguer aveva posto per la prima volta ai comunisti l’obiettivo del governo; ma alla fine quell’obiettivo lo aveva mancato, sconfitto dal terrorismo, dalla Dc, da Craxi, dagli americani, e, alla fine, anche da se stesso. Io credo che proprio in questo sia il segreto della sua tragica figura. Berlinguer non è colui che ha indicato alla sinistra la direzione da prendere, come molti ancora sostengono. Al contrario, penso che abbia indicato in modo molto chiaro, col fallimento del suo sforzo testardo, che quella direzione era sbarrata; che il Pci non poteva diventare altro restando se stesso. Se voleva andare al governo, non poteva arrampicarsi sugli specchi del compromesso storico, ma doveva diventare qualcos’altro. Doveva diventare uno degli odiati partiti socialdemocratici. Doveva riconoscere che la lettura comunista della società era sbagliata, che il capitalismo non stava per crollare, che la funzione salvifica dei comunisti era una favola. Che per incidere sul mondo bisognava vederlo per quel che era, e non inseguire antiche utopie, riverniciare schemi ormai smentiti dalla realtà. Il significato profondo della sua azione politica è stato questo: portare all’estremo punto possibile l’esperienza politica del Pci, tirare sino all’estremo un elastico che per un breve periodo sembrò poter reggere, ma poi si spezzò, mostrando che bisognava ricominciare da un’altra parte. Cosa che ha fatto la generazione successiva, trovandone la forza solo di fronte al crollo del comunismo.
Oggi, a distanza di trent’anni dalla sua morte, credo che sia ora di rivisitare questo mito. Non tanto per un interesse storico, ma perché l’esperienza berlingueriana ha segnato profondamente la sinistra italiana e ancora la condiziona. Sono convinta che le difficoltà incontrate dalla dirigenza che è venuta dopo (cresciuta prevalentemente nella sua lezione) nel costruire un partito pienamente nuovo e libero dall’eredità comunista siano state in gran parte dovute alla incapacità di fare i conti con l’ombra di Berlinguer. Oggi riflettere sulla sua vicenda politica è anche un modo di riflettere sulla contraddittoria esperienza del postcomunismo.
(tratto da Claudia Mancina, Berlinguer in questione, Laterza 2014)
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)