Non mi azzardo a giudicare la maggiore o minore bontà della Buona Scuola, sia nella sua versione organica (i “12 punti”) che in quella approvata il 9 luglio dalla Camera dei deputati. Mi dissuade l’incapacità di orientarmi nel labirinto di norme e di procedure di un’istituzione, quella scolastica, che supera di gran lunga, in complessità, ogni altra istituzione di cui mi sia occupato professionalmente nella mia vita di consulente di direzione. Semmai è la possibilità di pormi dal punto di vista dell’utente (in qualità di ex allievo, padre di ex allievo, padre e nonno di allievi), unito ad un interesse metodologico per i processi di insegnamento e apprendimento, che fa di me un osservatore interessato alle controverse e sofferte vicissitudini di questa sfortunata istituzione, che avrebbe un ruolo così importante e decisivo per le sorti del Paese.
Mettiamo subito la questione sul terreno della politica. Dal giorno in cui Matteo Renzi lanciò – credo fosse più o meno in quest’epoca, un anno fa – la Buona Scuola come una campagna diretta alla costruzione di una finalmente partecipata ed efficace riforma dell’istituzione scolastica, mi sono chiesto i motivi della implacabile e feroce opposizione degli insegnanti al progetto di riforma.
Non ero stato affatto stupito dal consueto muro di no eretto da sindacalisti, Pd cgiellino, opposizione e grillismo diffuso. Quella che non riuscivo a decifrare era la posizione degli insegnanti. E quanti erano a protestare: tutti? la maggioranza? una minoranza piuttosto rumorosa?
Quando, a settembre, alla festa dell’Unità di Milano, vi è stato l’assalto di un manipolo di precari, la loro furia l’avevo rubricata come un flash mob in salsa no-tav. Qualche mese dopo, a iter legislativo avviato, i cortei di massa mi hanno colpito per i toni da neo-sindacalismo di base, capace (si parva licet, come nel mitologico autunno caldo) di scavalcare sindacati da tempo assopiti, obbligandoli a inseguire l’onda obtorto collo. Più prevedibile il successivo risveglio dei sindacati, rianimati dal filibustering della minoranza Pd, che con la trovata dello scorporo delle assunzioni subito e rinvio della riforma a babbo morto, riaffermavano la tradizionale vocazione dei sindacati del pubblico impiego, abituati alle soluzioni furbe, a costo zero per loro, ma altissimo per la collettività; per capirsi, come gli scioperi dei trasporti il venerdì pomeriggio.
Ma è stato il recentissimo dibattito, definiamolo così per esagerazione, sulle chiamate e le rinunce a cattedre scomode, che ha avuto il merito di aprirmi gli occhi sui reali motivi della altrimenti assurda opposizione di gran parte di una categoria ad una riforma che, per la prima volta, dà al sistema risorse (anziché sottrargliele), in cambio di una diffusa assunzione di responsabilità da parte del sistema stesso. Perché questo mi pare sia il segno specifico di un provvedimento che, oltre a intervenire finalmente su una condizione di precariato cronico di massa – unica nel panorama di ogni altro settore pubblico e privato –, tenta di riavviare un sistema inceppato, rivalorizzando e responsabilizzando chi vi lavora. Lo fa con l’introduzione di meccanismi, semplici in termini organizzativi, ma rivoluzionari sul piano culturale, che danno ad ogni insegnante l’opportunità di qualificare il proprio profilo professionale (attraverso il registro dei docenti e soprattutto l’idea innovativa – che nessuno si è sognato neppure di commentare… – di poter spendere risorse pubbliche per il proprio aggiornamento) e soprattutto di rendere conto della propria performance ad altri (il capo d’istituto, i colleghi, e finalmente anche gli utenti, cioè gli allievi e le loro famiglie).
Ma un secondo merito, ancor più importante, è quello di aver messo a nudo, con evidenza inoppugnabile, la profonda frattura che gli insegnanti vivono nella propria identità.
È lontano il tempo (che comunque ha impresso in profondità la mia generazione, quella degli insegnanti più anziani, che aveva mandato a memoria la lezione di De Amicis, del De Sanctis, fino al Gramsci della funzione degli intellettuali) in cui si pensava che la base del “contratto psicologico” tra scuola e insegnanti fosse l’idea di un mandato nazional-popolare che faceva di loro classe di intellettuali, portatrice di una missione di emancipazione di un intero popolo in ricostruzione. Consolazione magra, certo del tutto insufficiente a giustificare la scarsa considerazione economica nei loro confronti, ma tutto sommato capace di sostenere un’identità sociale di cui andare comunque moralmente fieri.
Nel frattempo, anche per l’inadeguatezza di quella “idea di sé”, ormai stantia come le piccole cose (piccole cose antiche?) del Gozzano, grazie al fondamentale contributo dei pedagogisti (gli unici tecnici e metodologi legittimati a pensare e progettare la scuola), si è fatta strada la prospettiva della professione quale più corretto e coerente fondamento del contratto psicologico con l’istituzione. Non certo una scoperta rivoluzionaria, dato che da più di un secolo è questo il paradigma che regge il funzionamento delle moderne burocrazie/tecnocrazie. E per giunta del tutto incompatibile con il contratto economico al ribasso che, di fatto, ha da tempo trasformato l’insegnamento in un mercato del lavoro a bassa aspettativa di autorealizzazione.
Per certi versi le ultime riforme/controriforme dei governi berlusconiani possono essere intese come delle prese d’atto dell’impoverimento professionale del mondo della scuola. A differenza di questa riforma che invece, per i motivi già indicati, interviene proprio, con puntualità, sugli aspetti da cui ci si può attendere il riavvio di una dinamica incrementale di aspettative di riconoscimento professionale. E allora come mai il rifiuto senza condizioni?
La mia risposta a questa domanda è duplice; o, meglio, integra una spiegazione di tipo politico-culturale con una psico-sociologica. La visione dell’insegnamento come missione, checché ne dicano oggi i più polemici tra gli avversari della riforma, ha rappresentato per almeno un paio di generazioni di insegnanti la giustificazione, o meglio la copertura ideologica, grazie alla quale accettare la perdita di riconoscimento sociale del proprio status. Oggi che ciò non è nemmeno lontanamente pensabile (c’è un limite ad ogni auto-narrazione fondata sulla negazione della realtà), resta la sfida della professione; che tuttavia è avvertita da molti (di nuovo, quanti? tutti? la maggioranza? una minoranza refrattaria?) come un salto nel buio, un rischio superiore al proprio, percepito, senso di autoefficacia. Forse lo è o forse no; le sfide richiedono, per definizione, la presenza di una convinzione, non certo una certezza, di avere le risorse perlomeno per affrontarle. Cosa resta allora? La più comoda via di fuga nel modello, mai neppure pensato, tantomeno accettato, nel passato: quello del “dipendente statale”. Che in effetti, descrive l’attuale condizione di fatto ma che, nella percezione comune, anche e soprattutto da parte degli insegnanti, connota un modo di vivere il proprio lavoro e il rapporto con l’istituzione in cui si opera, che nulla ha a che spartire con il modello professionale.
L’adesione, solo in parte consapevole, e notevolmente ambivalente, di questo modello svolge probabilmente più di una funzione di difesa psicologica: da un lato consente di giustificare un drastico abbassamento di aspettative di autorealizzazione; dall’altro offre un abito mentale, già pronto per l’uso, al quale siamo tutti, noi italiani, abbastanza predisposti: chiusura ai cambiamenti, sentimento di fondo lamentoso e rancoroso, soddisfazione per i piccoli, spesso miseri, privilegi che la condizione dell’impiegato statale tuttora offre (certezza del posto di lavoro, orari, ferie, assenza o quasi di controllo sul proprio operato, nessun obbligo a rendere conto della prestazione ecc.; ulteriore vantaggio, compreso nel prezzo, una arcigna tutela sindacale tarata su una average performance, nella media, tendente al basso…).
La chiusa, a questo punto, è tutta politica. Alle prime manifestazioni di dissenso, molti – anche nel Pd – si sono sorpresi, e poi stracciati le vesti, per il fatto che, con questo tipo di riforma, Renzi osava (meglio: commetteva la follia di) mettersi contro una componente significativa della tradizionale costituency del partito della sinistra italiana. Per un partito che intenda conservare il gruzzolo di capitale sociale per una guerra di posizione senza fine, il più delle volte in difesa, talvolta addirittura in trincea, quella decisione sarebbe un’assoluta sciocchezza. Per un partito che invece – e questo a me è apparso, fin dal primo giorno, il senso dell’assalto che Matteo Renzi ha mosso al quartier generale della Ditta – voleva mettere in discussione la teoria militare del “grande partito della sinistra serio, cauto, attendista”, questa decisione non solo era logica, ma anche obbligata. Non certo una passeggiata, perché mettersi contro – tutti insieme – la dirigenza pubblica, i consiglieri di stato, i magistrati con diritto a incarichi extragiudiziari, i sindacalisti in permesso permanente retribuito, i politici di professione con cariche a partire dalle circoscrizioni municipali fino al Senato della Repubblica (in gran parte Pd), i giornalisti, gli anchormen, e adesso anche gli insegnanti…, rende effettivamente la partita piuttosto incerta. Ma, come si dice in questi casi, hic Rhodus, hic salta. Vedremo come va a finire.
In altri termini, dipende quasi tutto da come gli insegnanti vorranno disporsi nel dopo-riforma (posto che è ormai un dato di fatto, “cosa fatta capo ha”): continuare a piangersi addosso o, per dirlo con termini più tecnici, ad assumere una posizione vittimistica che, proiettando al di fuori di sé ogni responsabilità circa la propria condizione, funziona come autogiustificazione consolatoria; oppure scegliere di abbandonare un contesto di riconoscimento e autorevolezza sociali molto bassi, per lavorare invece su obiettivi professionali, cioè su risultati ambiziosi ma verificabili di formazione delle generazioni future; ridando così una nuova possibilità all’antica concezione, che un senso l’ha avuto e ancora può averlo, della missione formativa, che nei momenti più difficili della nostra storia una buona mano alla ricostruzione della nostra povera Italia l’ha pur data…
Psicologo, consulente di direzione, membro del comitato scientifico dell’associazione di psicosocioanalisi Ariele e della direzione metropolitana di Milano del Pd, autore di libri e articoli sullo sviluppo organizzativo, la formazione degli adulti, la psicosocioanalisi