di Mario Rodriguez
In occasione dell’autocandidatura di Carlo Calenda a sindaco di Roma, alcuni esponenti della maggioranza che ha conquistato la guida del PD promettendo di «rifare un partito vero», tornano a parlare di primarie. Personalmente, essendo stato un convinto sostenitore delle cosiddette primarie, provo una certa malinconia perché il loro rilancio è del tutto strumentale. A Bologna infatti lo stesso Pd le esclude per via del Covid e ovunque, recentemente, se si è potuto sono state evitate. Le primarie sono diventate l’ultima ratio: solo se non ci si riesce a mettere d’accordo ai vertici dei partiti della coalizione si ricorre alle primarie.
A Roma, oggi, ne parlano soprattutto coloro che non le hanno mai mandate giù, chi si è impegnato per cancellarle o depotenziarle. Chi non le ha mai volute riconoscere come un tratto costitutivo di un partito che non voleva essere il packaging di un vecchio prodotto ma qualcosa di sperimentalmente nuovo. Chi non si è mai impegnato perché fossero davvero aperte al maggior numero di elettori e sostenitori per adattarsi a una società sempre più complessa che impone il pluralismo (un’imposizione, non un’opzione).
Le cosiddette primarie dovevano essere un elemento sul quale plasmare tutta la nuova forma organizzativa per farla diventare più efficace a rappresentare i cittadini in quella che è stata definita «la società dell’autocomunicazione di massa». Mettendo al centro la scelta del candidato dovevano servire a rispondere alla crescente richiesta di partecipazione (contare, dire la propria) che viene fuori dai grandi cambiamenti in atto dalla fine del secolo scorso: la fine delle grandi narrazioni del ’900, la secolarizzazione, l’aumento dei livelli di istruzione e di informazione di tutti i cittadini e, soprattutto, il travolgente salto tecnologico cominciato con Internet e sfociato nei social.
Ma invece di raccogliere la sfida di organizzare nuove forme della rappresentanza adatte al tempo si è scelta la via della nostalgica lamentazione del tempo perduto. «Non ci sono più i dirigenti di una volta, non ci sono più i partiti di una volta». Come se il cambiamento avvenuto (la fine dei partiti di massa) fosse stata una scelta intenzionale e non invece una modificazione dell’ambiente nel quale si stava operando. Per questo suona strano che chi criticava le primarie perché erano aperte (può votare chi “passa per caso”) oggi le rilanci in chiave anti-Calenda forse pensando di riuscire a far votare solo chi vuole.
Peccato, perché un partito aperto basato sul coinvolgimento diretto degli elettori avrebbe adattato le forme della rappresentanza (il partito) a quello che si muoveva e si muove nella società (che, bisogna riconoscerlo, in modo molto particolare hanno raccolto Grillo e Casaleggio), avrebbe potuto contribuire a rilegittimare il ruolo della delega e anche la politica in generale. Superando un meccanismo di selezione dei gruppi dirigenti condannato all’asfissia perché tutto basato sulla cooptazione oligarchica.
Ma bisognava considerare la scelta della selezione competitiva aperta agli elettori – le cosiddette primarie – l’atto fondativo di una nuova identità, di una differenza qualificante, di un modo nuovo di stare nella società finalizzato ad assolvere una funzione essenziale della democrazia: scegliere chi mandare nelle assemblee rappresentative e al governo. Cioè come costruire la classe dirigente. Ma tant’è. Forse è persino inutile tornarci sopra.
(Ripreso su autorizzazione dell’autore da Linkiesta del 27 ottobre 2020)
Ha fondato MR & Associati Comunicazione una società di consulenza oggi specializzata nel campo della web reputation. Consulente di comunicazione pubblica e politica, è docente a contratto all’Università di Milano. È autore con Nicolò Addario di “Comunicare la politica”, Monduzzi Editoriale, 2016, e ConSenso – “La comunicazione politica tra strumenti e significati”, Guerini e Associati, 2013. Collaboratore del “Il Riformista” e “Europa”, membro del Comitato scientifico della rivista “Comunicazione Politica”, edita da Il Mulino. Ha curato l’edizione italiana de “La rivoluzione silenziosa” di R. Inglehart, “I Neoconservatori” di P. Steinfel e “L’uso pubblico dell’interesse privato” di C. Schultze.