di Paolo Segatti
Sono passati 16 anni da quando il Parlamento con una maggioranza bipartisan decise di celebrare, nel giorno in cui fu firmato il trattato di pace con le potenze vincitrici, il ricordo delle vittime delle complesse vicende del confine orientale. Sedici anni sono tanti. In questi anni gli storici hanno approfondito molti aspetti di quelle complesse vicende. Eppure puntualmente ogni 10 febbraio la storia del confine orientale viene riproposta attraverso narrazioni iper-semplificate.
A destra si parla solo delle foibe, nulla delle politiche violente di assimilazione tentate dal fascismo in un’area multinazionale. L’esodo rimane sullo sfondo.
A sinistra non manca mai chi insiste sulla tesi, intellettualmente ridicola per quello che suggerisce sui meccanismi che generano fenomeni storici complessi, secondo la quale le foibe sarebbero soltanto la ritorsione per quello che l’Italia fascista fece in quelle terre. L’esodo continua a rimanere sullo sfondo.
Su altri aspetti si sorvola. Si sorvola sul fatto che il numero degli italiani finiti in foiba è forse stato minore degli sloveni e croati uccisi in vari modi dall’esercito di liberazione jugoslavo, di cui parla Martin Pollack in “Paesaggi Contaminati”. Tutti accomunati nella categoria dai confini mutevoli di “collaborazionisti”. Si tace su chi in Istria è rimasto cercando di rimanervi da italiano. Spesso per la scelta ideologica, che però non lo protesse dalla pressione nazionalistica del comunismo sloveno e croato, come testimonia il poeta di Rovigno, Zanini, in “Martin Muma”.
La complessità di quella storia svanisce nella relazione del vicepresidente dell’Anpi nazionale al seminario tenuto in Senato il 4 febbraio 2020 dove la parola comunismo compare solo come attributo della Jugoslavia e di esodo si parla, mi pare solo una volta, senza per altro approfondirne le ragioni.
Ma l’esodo non fu un accidente. Fu un evento drammatico quanto le foibe stesse perché pose fine per sempre ad una cultura adriatica divisa certamente da contrapposte opzioni nazionali quanto unita nei modi di vita. In questa tragedia il totalitarismo comunista fu un attore primario come lo fu quello fascista.
Perché da una parte e dall’altra non si vuole fare i conti con la complessità?
Perché le vicende del confine orientale vengono sempre ridotte ad un fatto solo italiano, quando è palese che quanto accaduto tra il ‘18 e gli anni 50 del secolo scorso nella Venezia Giulia/Litorale è solo uno dei tanti capitoli della storia dell’Europa centro-orientale. Alla cui semplificazione etnico-linguistica si sono dedicati con brutale efficacia i governi degli stati sorti dopo la dissoluzione dell’impero Asburgico, il fascismo e il nazismo, e il comunismo. Come mostra la ricerca storica comparata.
Intuisco la risposta per quelli di destra. Parlare del confine orientale come fosse solo una vicenda italiana serve a non perdere il possesso di un tema che sentono loro. Ma delle cui origini tacciono perché esse chiamano platealmente in causa anche la responsabilità del fascismo.
Ma per quelli che stanno a sinistra, a parole sempre attenti alla difesa delle diversità culturali, quali sono le ragioni di una visione schizofrenica? Forse anche per loro il valore da proteggere non è la comprensione storica a tutto tondo, come dicono, ma più prosaicamente la loro identità, una identità congelata. Esattamente come per quelli di destra.
Le vicende del confine orientale sono dunque ostaggio di chi ancora oggi non osa interrogarsi fino in fondo sulle ideologie totalitarie del XX secolo e sull’impatto che ha avuto la loro applicazione nei territori culturalmente plurali dal Baltico all’Adriatico. Potrebbero essere le pietre di inciampo che costringono tutti a ricordare aspetti drammatici non solo della storia nazionale ma anche di quella europea. Sono diventate per alcuni, a destra come a sinistra, una occasione per evitare di guardare il lato in ombra della propria biografia personale o di gruppo. Un parlare di altro come lo sono tutti gli esercizi di narcisismo ideologico.
Professore Ordinario di Sociologia Politica nella Università degli Studi di Milano dal 2002. Ha insegnato anche nelle università di Venezia, Trieste e Pavia. Tra i suoi ultimi libri: “L’apocalisse della democrazia italiana. Alle origini di due terremoti elettorali” (con Schadee e Vezzoni) Il Mulino 2019, “European Identity in the context of National Identities” (con Bettina Westle) Oxford University Press 2016, “La rappresentanza Politica In Italia, candidati ed elettori nelle elezioni del 2013” (con Aldo De Virgilio) Il Mulino 2016, Itanes “Voto Amaro Crisi economica e discontento nelle elezioni del 2013” (con P. Bellucci), Il Mulino 2013.
Eccezionalmente vero!
Condivido l’approccio storico che fa riferimento alla complessità della questione. Su questa linea mi sembra di grande aiuto è lo storico Raoul Pupo con i suoi testi.