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Caracas, Italia. Come cresce la pianta populista

Alessandro Maran mercoledì 23 Maggio 2018
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di Alessandro Maran

 

Potremmo chiamarlo «esperimento Venezuela».

Da un pezzo infatti, «per capire come la pianta populista può crescere rigogliosa in forme diverse ma tra loro legate da tratti comuni», il prof. Loris Zanatta ha suggerito l’analisi di due casi «all’apparenza agli antipodi dal punto di vista storico e geografico», l’Italia e il Venezuela: «Paesi assai diversi tra loro per molteplici aspetti storici, sociali, politici ed economici, ma entrambi diventati da alcuni lustri in qua tra i più ricchi laboratori del nuovo populismo».

In tutti e due i paesi, scrive Zanatta, «il populismo ha colto il suo trionfo sviluppandosi sulle rovine del sistema politico tradizionale, imperniato su Democrazia cristiana e Partito comunista in Italia e su Copei (Comité de Organización Politica Electoral Independiente) e Acción Democrática in Venezuela, partito di ispirazione cattolica il primo e di filiazione socialista il secondo».

Benché diversi tra loro, «ciò che tali populismi rivelano è l’aspetto traumatico assunto in Italia e in Venezuela dal crollo della mediazione politica tradizionale e la vitalità che sotto la sua coltre conservano antiche e radicate concezioni del mondo»; e sia in Italia che in Venezuela, il populismo si inserisce e prospera in uno spazio già di per se fertile «dato il debole radicamento dell’ethos liberale nella cultura politica di entrambi i paesi e stante nell’uno e nell’altro caso la diffusa pervicacia di un immaginario politico diffidente verso la rappresentanza liberale, portato a ‘sentire’ la democrazia come attributo delle relazioni sociali ma non altrettanto della sfera politica».

 

Il Venezuela, si sa, oggi è un paese devastato: i bambini sono senza cibo, gli ammalati senza medicine, i prigionieri senza diritti e un sacco di gente, senza speranza, fugge in massa dall’altra parte della frontiera.

Il cosiddetto «socialismo del XXI secolo» ha faticato parecchio a restare in sella; e in questo sforzo ha speso la maggior parte delle proprie energie e delle risorse del paese.

I chavisti hanno dimostrato di non essere in grado di governare un paese ma hanno impedito con ogni mezzo l’alternanza. Il presidente Chavez ha lasciato come eredità ai venezuelani un’utopia: un altro «mare della felicita» («Cuba es el mar de la felicidad. Hacia allá va Venezuela», sosteneva) che, ovviamente, nessuno poteva raggiungere.

In questo senso, come ha sottolineato l’esule venezuelano Tulio Hernández, si è trattato di un «esperimento». Non è stato una replica del comunismo cubano o sovietico, o della «democrazia popolare» di Gheddafi, e neppure una copia di Videla o di Pinochet. È stato un’altra cosa, un ibrido. Imbrigliato (fino a un certo punto) dalle regole del gioco democratico scritte nella Costituzione (che gli stessi chavisti hanno approvato), assediato da nuove relazioni internazionali che limitano la possibilità di instaurare dittature di vecchio stampo e dalla circolazione immediata delle informazioni sui social network, il chavismo ha imparato a giocare d’astuzia, ad escogitare trucchi ed espedienti che gli hanno permesso di mantenersi al potere senza dover fare apertamente quel che la sua natura totalitaria gli avrebbe imposto: rovesciare il tavolo e governare con la forza delle armi.

 

Paradossalmente, questo è stato il suo vantaggio competitivo. Disorientare le forze democratiche, cambiare gioco continuamente. Governare con la Costituzione in una mano e una pistola nell’altra. «Il suo più grande trionfo – ha scritto Tulio Hernández – è stato quello di minare, attraverso un progressivo logoramento, le riserve emotive degli oppositori (…) Il chavismo, che al governo si è rivelato un indubbio fallimento, è, al tempo stesso, una macchina micidiale, oliata ed efficiente, una rete a strascico per la pesca elettorale (…) Non è facile combattere una cosa simile». Non è facile nel Venezuela di Maduro e neppure alle nostre latitudini, dove la «stanchezza democratica» ha apparecchiato la tavola ai gemelli del populismo italiano.

 

Come reagire

Héctor Schamis, in un articolo pubblicato qualche tempo fa su El País con il titolo «La coalición de los sensatos», ha sottolineato la necessità di reagire a questa politica dell’esaltazione demagogica del «popolo» (e della rabbia) con la ragionevolezza: «Quella del leader che non grida, spiega. Non insulta né discredita, argomenta. Non impone, persuade». Il che però presuppone che si renda esplicita la vera divisione politica emersa con la vittoria dei sovranisti nelle elezioni del 4 marzo scorso, superando le vecchie formule e coordinando gli europeisti intorno a un programma e a leadership rinnovate.

 

Dalla Spagna alla Francia di Macron e alla Germania di Angela Merkel l’antidoto contro la demagogia xenofoba si sta concretizzando sulla base di un obiettivo: rivitalizzare e rimodellare l’Unione europea, l’esperienza collettiva di costruzione democratica più importante della storia d’Europa.

Non per caso, i populisti si stanno coalizzando proprio contro lo «spettro» (che si aggira per l’Europa) di un polo europeista, di una «coalizione del buon senso». Da qui, parafrasando Marx, due conseguenze: l’Unione europea viene ormai riconosciuta da tutti i populisti come il loro nemico mortale; è tempo che «los sensatos» espongano apertamente a tutto il mondo la loro prospettiva, i loro scopi, le loro tendenze, e oppongano ai populisti di ogni genere un manifesto per creare un’alternativa dell’apertura. Non occorre, stavolta, aspettare la Notte dei Cristalli.

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