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Caro Mineo, la mutazione genetica del Pd è necessaria

Giovanni Cominelli giovedì 5 Novembre 2015
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L’uscita del senatore Corradino Mineo dal Gruppo Pd al Senato era minacciata da tempo. Già noto alla cronaca per essersi rifiutato di versare la sua quota al partito, giustificandosi con la diminuzione di introiti subita nel passaggio dalla Rai al Senato – oh, indigenza! -, Corradino Mineo è nipote di Mario, storico esponente dell’intellettualità e della politica palermitana, che ha attraversato il Pci, il Psi, la sinistra extraparlamentare e che, alla fine, ha fondato un proprio gruppo politico, denominato Praxis, dotato di rivista politica omonima, sciolto nel 1983. Corradino fu tra i fondatori della Lega degli studenti rivoluzionari di Palermo e del Gruppo Praxis a Torino. Insomma: ordinarie vicende della stagione del ’68, sempre alla ricerca di una sinistra nuova, più radicale rispetto a quella storica.

A volte le storie hanno una lunga sotterranea durata. E pare essere questo il caso. La motivazione fondamentale del lungo addio è quella della mutazione genetica che il Pd starebbe subendo ad opera di Renzi. Tutti i fuoriusciti e i fuoriuscibili muovono questa accusa, emettono questo giudizio inappellabile. In biologia, per mutazione genetica si intende una modifica permanente del genoma, che può portare anche alla modifica del fenotipo. E’ un processo vitale e necessario: se una specie non evolve, scompare; e l’evoluzione è resa possibile dalla mutazione genetica. Trasposta in politica, che significa l’accusa? Che il Pd di Renzi non è più un partito di sinistra. Donde la necessità di costruire un nuovo polo/partito di sinistra. Come già a partire dagli anni ’60, si tratta di assemblare pezzi “rivoluzionari”. La contestazione verso Renzi non è la stessa che veniva mossa al gruppo dirigente del Pci negli anni ’60. Non pare che Renzi sia giudicato un contro-rivoluzionario, in nome del “bisogno di comunismo”, della socializzazione dei mezzi di produzione, della dittatura del proletariato. No, Renzi è trattato assai peggio: sarebbe preda di conati autoritari sul piano delle politiche istituzionali – non aveva esordito così anche il socialista Mussolini? -, e subalterno al liberismo selvaggio, sul piano delle politiche economiche e sociali.

Qual è la metafisica per niente “occulta” che sta dietro questi giudizi? In primo luogo, un’idea di Repubblica, qual è uscita dalla Costituente e dalla Costituzione del 1948. E’ la Repubblica dei partiti. Tra la società civile ideologicamente divisa e lo Stato a pezzi dall’8 settembre, i partiti sono stati gli incubatori della ricostruzione del Paese. In cambio hanno occupato progressivamente e in tempi diversi – a seconda che fossero al governo o all’opposizione – settori di economia, di società civile e di Stato. I partiti, cioè associazioni private, organizzate per oligarchie cooptate, cui la Costituzione materiale ha riconosciuto un ruolo pubblico-statale decisivo ed esclusivo. Il Parlamento è la loro arena. Il governo è un puro purissimo accidente; se ne cambia uno ogni nove mesi. Oggi la media dei mesi si è alzata.

Riequilibrare rappresentanza e governo è il compito che la Costituzione ha lasciato inevaso e che, dopo ben tre Commissioni istituzionali e gruppi di lavoro, si sta incominciando ad affrontare efficacemente. Senza governi stabili, il Paese viene parassitato dalla giungla delle corporazioni, la politica esalta il proprio primato, ma sta in coda. E chi la dimena sono le potenze sociali. Nella Repubblica dei partiti al Pci era toccato un grande ruolo, che ha funzionato come legittimazione democratica e costituente, nonostante il fattore K. Per tutta una generazione politica, di origine Pci ed extraparlamentare, questa è l’unica democrazia possibile. Modificare questo assetto, dare l’ultima parola ai cittadini nella scelta del premier significa andare verso la dittatura. Far coincidere leadership di partito con leadership di governo porta nella stessa direzione. Fermi al principio tolemaico della centralità del sistema dei partiti, i neo-rivoluzionari non riescono ad accettare la nuova – nuova solo per loro, giacché si tratta, in realtà, della vecchia ontologia di Adam Smith e di Marx rivisitata – ontologia socio-politica, nella quale esistono due poli: la società civile tutt’altro che angelica, e lo Stato, che a sua volta non scende dal Monte Sinai, non è il passaggio dell’Assoluto nel mondo, come pretendeva Hegel. In mezzo, pezzi di società civile, di movimenti sociali e culturali che si organizzano in partiti, al fine di filtrare, ruminare, addomesticare gli impulsi animali che arrivano dalla società civile per portarli nell’arena in cui si combatte per lo Stato universalistico. I partiti non sono i padroni dello Stato né della società civile. Sono formazioni intermedie, che devono essere espressione della società civile e che debbono essere regolati, per legge, se il loro ruolo è quello di “costruire”, nel conflitto, lo Stato.

E che dire del liberismo selvaggio? Di questo nuovo spettro che si aggira per l’Europa e per il mondo? Capitale e lavoro devono stare sui fronti opposti della lotta di classe. Il partito della sinistra deve essere il partito degli operai, dei lavoratori del pubblico impiego. Insomma: il partito della Cgil. Il “Ceto medio e Emilia rossa” di Togliatti è messo al macero. Tutti costoro, fuoriusciti e fuoriuscibili, oggi pensano ad una nuova forza “socialdemocratica”. Una fatale amnesia storica ha fatto loro dimenticare che la socialdemocrazia – peraltro già imputata sprezzantemente da Enrico Berliguer di mutazione genetica rispetto al genotipo originario, quello comunista – è quella che a Bad Godesberg del 1959 rinunciò al marxismo e alla lotta di classe. Nel frattempo, già negli anni ’90, fu costretta ad una nuova mutazione genetica con la Neue Mitte – il Nuovo Centro – di G. Schröder e il New Labour di T. Blair. E qui, in effetti, sta tutta la questione: la storia spinge le persone e i soggetti collettivi – civili, sociali, politici – alla mutazione genetica quale condizione per continuare a camminare nella storia del mondo.

Una mutazione necessaria Carlo Rosselli l’aveva già individuata, profeta inascoltato, nel 1929-1930: quella del socialismo liberale, cioè il passaggio dal primato dell’eguaglianza a quello della libertà, a quello della società civile e della persona sullo Stato. In quello stesso periodo, nel 1931, la Quadragesimo Anno di Pio XI definiva il “subsidiarii officii principium”, il principio di sussidiarietà, che al fascismo del partito unico e dello Stato totalitario contrapponeva una nuova ontologia, quella del cattolicesimo liberale: prima la persona, poi la famiglia, poi la società e le comunità intermedie, poi lo Stato. Sarà l’interpretazione fanfaniano-corporativa, che passerà nella sinistra sociale democristiana del dopoguerra a capovolgere la piramide, mettendo alla base lo Stato, sempre nel nome del principio di sussidiarietà. Che oggi cattolicesimo liberale e sinistra liberale si incontrino attorno a Renzi non è casuale. Ma non casuale è neppure che l’impasto di nostalgie, di difesa di piccoli privilegi e di grandi oligarchie, di dogmatismo conservatore, del quale Mineo, Fassina, Civati, Cofferati, D’Alema, Bersani, Bindi… sono i rappresentanti più noti, si opponga a quel progetto. Niente paura: non vogliono fare la rivoluzione. Semplicemente, rivogliono indietro la Prima repubblica. Pci e Dc hanno lasciato tracce profonde, a quanto pare.

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