di Stefano Ceccanti
Il dibattito politico sui quotidiani è bloccato o sui confusi lavori (e annesse strumentalità) della commissione sulle banche o sui micro-spostamenti di ceto politico, che hanno indubbiamente un qualche valore (sempre meglio qualche alleato in più che in meno), ma i cui riflessi significativi sul voto degli elettori sono tutti da dimostrare.
Invece il dibattito politico nelle sedi che contano è tutto diverso e riguarda il futuro dell’Unione Europea a cui è strettamente legato quello dell’Italia.
La riforma dell’Europa
Ieri era il giorno delle proposte della Commissione UE che ha esplicitato la sua impostazione di riforma istituzionale, che per fortuna qualche giornale commenta. Ha un valore relativo perché prima si deve formare la coalizione tedesca, però dimostra che il tema è vivo e decisivo. Ne abbiamo parlato a Orvieto con la relazione Tonini e le conclusioni di Morando e ne ha parlato anche il presidente Mattarella ieri in Portogallo. Su questo si dovrebbe concentrare il Partito Democratico, anche in vista del vertice europeo del 15, perché è l’unico partito che potenzialmente avrebbe le credenziali per far valere un messaggio chiaro che varrebbe ben di più, in termini di potenziali consensi, delle liste alleate che, per carità, fanno sempre comodo, vista la legge elettorale, ma che non sono risolutive nel rapporto col Paese.
Dalla sinistra al centrodestra ai M5S: il pericolo sovranista
Su questi temi la lista alla sua sinistra è del tutto eterogenea: lì sono forti posizioni di sinistra sovranista favorevoli anche a possibili uscite dall’euro e che non a caso puntano a un asse post-elettorale col M5S. La coalizione di centrodestra è eterogenea perché deve muoversi tra Merkel e le Pen e ricorrere a escamotage come la doppia moneta. Interessante l’intervista di Di Maio alla Stampa, nonostante il titolo rassicurante. Di Maio conferma di voler mantenere la minaccia del referendum sull’euro, che da sola incrina la credibilità dell’Italia per entrare o no nella nuova zona di cooperazione rafforzata che si delinea e dove staranno di sicuro Francia e Germania. Di Maio sembra anche ignorare che la linea dei negoziati per espandere i deficit nazionali e allontanare il rientro dal debito è alternativa a quella federalista: chi starà nella nuova area più integrata otterrà appunto il vantaggio di una maggiore integrazione federale, traino decisivo per lo sviluppo, che comporta però l’onere di una maggiore convergenza tra i Paesi contraenti.
Una campagna per entrare nell’Europa che conta
Al netto delle tecniche su questa o quella istituzione (il Ministro europeo dell’economia, il Parlamento della zona Euro), come spiega Fabbrini, il Pd dovrebbe appunto impostare una campagna macroniana a vocazione maggioritaria, di tipo referendario, sul fatto che solo con la propria guida, viste le posizioni degli altri, l’Italia potrà entrare nella nuova zona integrata di cooperazione politica che maturerà nel 2019 e che decollerà con o senza di noi. Lo ha fatto dal niente Macron, certo in un sistema del tutto diverso (per sua fortuna), ma non è detto che non si possa riproporre in forme diverse. Sarebbe un messaggio ben più forte di qualche alleato in più.
Vicepresidente di Libertà Eguale e Professore di diritto costituzionale comparato all’Università La Sapienza di Roma. È stato Senatore (dal 2008 al 2013) e poi Deputato (dal 2018 al 2022) del Partito Democratico. Già presidente nazionale della Fuci, si è occupato di forme di governo e libertà religiosa. Tra i suoi ultimi libri: “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima” (2016). È il curatore del volume di John Courtney Murray, “Noi crediamo in queste verità. Riflessioni sul ‘principio americano'” , Morcelliana 2021.