di Claudia Mancina
Aldo Tortorella è stato uno dei più intelligenti e colti dirigenti dell’ultima fase del Partito comunista italiano.
Nella complicata mappa delle correnti politiche che, sotto la copertura dell’inevitabile unità, attraversavano quel partito, incarnava una posizione di sinistra illuminata e moderata, la punta più avanzata e innovativa del berlinguerismo.
Negli ultimi anni, prima dell’Ottantanove, aveva manifestato una apertura alle riforme istituzionali. Per questo il suo schierarsi contro la svolta di Occhetto fu in una certa misura inatteso.
Ora l’intervista fatta da Veltroni e pubblicata dal Corriere della Sera chiarisce molte cose.
La ricostruzione della vicenda storica che segnò la fine della Repubblica dei partiti – la solidarietà nazionale, il rapimento Moro – indica negli Usa e nell’Urss i veri nemici della democrazia italiana, autori di paralleli interventi violenti. Gli Usa su Moro, l’Urss su Berlinguer.
Questa ricostruzione si basa su una tesi chiaramente espressa: quella di una discontinuità tra Togliatti e Berlinguer nel giudizio sulla rivoluzione russa e sul socialismo. Il secondo, secondo Tortorella, non pensava più, a differenza del primo, che la rivoluzione del 1917 fosse stata l’inizio di una storia nuova e positiva.
Non mi sembra che sia così.
Berlinguer non ha mai avanzato riserve sul valore storico esemplare della rivoluzione russa; ha detto che era finita la sua spinta propulsiva, che è tutt’altra cosa. Del resto, negli stessi articoli del 1973 in cui lanciava l’idea del compromesso storico, Berlinguer si rifaceva a Lenin.
Mi sembra molto più corrispondente alla realtà vedere invece nella politica berlingueriana il punto d’approdo, certo adeguato ai tempi, della politica togliattiana. Cioè il limite estremo a cui poteva spingersi un partito comunista, sia pure originale come quello italiano, che pur essendo un fondatore della democrazia italiana (suo imperituro merito, e ragione del suo lungo successo) riteneva di doverla superare in una sorta di socialismo democratico che ovviamente non si sarebbe mai riconosciuto tale.
Tra la democrazia progressiva di Togliatti e gli elementi di socialismo di Berlinguer non c’è una vera differenza.
La strategia di Berlinguer non poteva non fallire, non per oscure trame che certamente ci furono e pesarono, ma perché non portava il Pci fuori dalle sue ambiguità e dalle sue doppie fedeltà.
La democrazia valore universale non poteva convivere con l’appartenenza al mondo comunista, sia pure critica, dialettica, sofferta. Ma mai negata, come testimonia il fatto stesso che quella affermazione fu fatta (indubbiamente con grande coraggio) a Mosca, durante una assise del PCUS.
Già docente di Etica all’Università “La Sapienza” di Roma, fa parte della presidenza di Libertàeguale. Deputato dal 1992 al 1994 e dal 1996 al 2001 nel gruppo Pds/Ds, è membro della direzione nazionale del Partito democratico. Il suo ultimo libro è “Berlinguer in questione” (Laterza, 2014)
Concordo dalla prima all’ultima parola. Berlinguer ha lasciato deperire il vecchio PCI evitando di trasformarlo in un moderno partito socialista democratico. Compito difficilissimo, ma lui era l’unico a poterlo fare. Il mito dall’ottobre rosso è stato micidiale per la democrazia italiana. Berlinguer temeva, tra l’altro, una scissione del partito, che ci fu nell’ 89, dopo il crollo del muro ed il c