di Giorgio Armillei
1. La doppia spinta
Come prova a riorganizzarsi l’opposizione al governo nazional-populista? Al netto delle dinamiche di Forza Italia, stretta tra continui annunci di big bang e più concreti slittamenti leghisti dei suoi colonnelli – ché l’elettorato è già andato – le cose cominciano a muoversi nel PD che resta al momento l’unica cosa che nonostante somigli a un’organizzazione politica. Anche qui segnali fumosi di big bang certo, ma anche movimenti visibili. L’intervista di Zingaretti al Corriere della Sera del 1 luglio, l’articolo di Calenda su il Foglio del 27 giugno, il convegno sulla nuova sovranità europea di LibertàEguale del 2 luglio, il lungo articolo di Michele Salvati sempre su il Foglio del 12 giugno, il post di Mario Ricciardi su il Mulino on line del 26 giugno: si vanno disegnando gli ingredienti di una prima mappa politica. E’ utile allora provare a trasformare l’elenco dei posizionamenti in una vera mappa, dando coordinate e punti di riferimento. Lo spazio sembra andare suddividendosi in aree generate da due spinte incrociate. Da un lato quella che riguarda il PD come partito e dall’altro quella che riguarda le proposte di policy. Due spinte significa due assi di posizionamento, due assi che incrociati danno origine a quattro quadranti. Vediamo meglio.
Primo asse, dentro o fuori il PD? La preparazione dell’alternativa al governo nazional-populista si colloca dentro i confini del PD e della sinistra oppure va oltre quei confini, li supera prendendo sul serio il nuovo allineamento dell’elettorato lungo la frattura chiusura vs speranza, populismo vs riformismo? Non per tornare “prodianamente” indietro ma per sviluppare l’intuizione del partito a vocazione maggioritaria. Una frattura che disegna due nuovi cluster, fatti di chi si vuole prevalentemente difendere chiudendosi e di chi vuole scommettere e rischiare aprendosi. E come in tutti i cluster non tutti coloro che vi appartengono sono uguali: c’è un fattore aggregante e molte differenze, ma il primo prevale sulle seconde. Insomma tracce di destra e di sinistra permangono ma al momento la gerarchia è un’altra: chiusura vs speranza contano più di destra vs sinistra. Lo dice bene Francesco Occhetta su Civiltà cattolica del 19 maggio e lo ripete su Vita pastorale: c’è una polarizzazione secondo due macro aree, una rappresentata dal governo lega stellato e l’altra che “aspetta di essere colmata da una sorta di lista civica progressista e europeista”.
In altri termini lo sviluppo della storia del PD si orienta in direzione di un passo indietro, sia o no compresa in questo passo indietro una nuova aggregazione di coalizione che va dal vecchio centro alla vecchia sinistra, o in direzione di un passo avanti, sia o no compreso in questo passo avanti l’uso di una ricetta di scomposizione e ricomposizione? Non si tratta di geometrie politiche astratte. Al contrario si tratta di capire collocazioni che hanno immediati e pesanti effetti politici. Ad esempio, come ci si comporta in vista delle elezioni del 2019 per il Parlamento europeo? Restando dentro i confini del PSE – e quindi in un’area che va assumendo sempre più i contorni opposti e complementari della sconfitta e della fascinazione corbyniana senza corbyn, della serie a populismo un populismo e mezzo – oppure prendendo sul serio la sfida nazional populista e strutturando un’offerta europea di tipo “unionista”, secondo una classica linea di frattura tra sostenitori della necessità di forti autorità europee di governo e sostenitori della rinazionalizzazione statale delle politiche?
Secondo asse, dentro o fuori dello stato? La preparazione dell’alternativa al governo nazional-populista si colloca dentro l’armamentario statalista veterokeynesiano, alla ricerca di uno stato forte anche se non nazionalista, dentro qualcosa che si muove nel perimetro quasi hobbesiano del gioco tra paura e protezione? Una specie di protezionismo ben inteso che mixa con intelligenza apertura sovranazionale e chiusura statalista, avendo sempre ben in mente che anche a livello sovranazionale ci vuole qualcosa che funzioni come uno stato e che come uno stato pretenda il primato e la sovranità.
Dimenticando però i fallimenti dello stato e risvegliando la nostalgia per i monopoli, come la chiamano Carlo Scarpa e Alessia Savoldi nel rapporto 2017 sulla finanza pubblica italiana pubblicato per il Mulino. Oppure conferma il superamento del paradigma statalista, così come da sempre hanno fatto i padri fondatori prima della Comunità e poi dell’Unione, immaginando e realizzando non certo uno stato europeo e neppure gli stati uniti d’Europa ma un più ingegnoso e sofisticato meccanismo di governo europeo non statale, fatto di una logica incrementale, contrattualista e policentrica?
2. Il PD da solo non va da nessuna parte
Cominciamo dunque a vedere con un più alto livello di definizione la nostra mappa e possiamo anche provare a identificare chi la popola, almeno fino a questo punto. Coloro che vogliono restare nel recinto del PD e nel recinto dello stato, facendo ricorso a tutta la strumentazione dirigista keynesiana, hanno il loro campione. Nicola Zingaretti ha messo in movimento tutta un’area interna e esterna al PD che coltiva questo progetto. Anche se occorre dire con qualche non piccola contraddizione: è un po’ difficile infatti dichiararsi apertamente europeisti, sostenere l’irreversibilità delle politiche sovranazionali, chiedere – questo sì un po’ populisticamente – l’elezione diretta del Presidente degli stati uniti d’Europa e poi predicare il deficit spending nazionale al posto dell’austerità ordoliberale.
Un corbynismo all’italiana insomma, secondo uno schema che ritroviamo nel post di Mario Ricciardi su il Mulino on line. Insieme a una sorta di pikettysmo culturale: capitalismo e diseguaglianza crescente sono inscindibili, populismo è una “buzzword” che è meglio abbandonare, il ceto medio soffre delle politiche della sinistra liberista, il reddito di cittadinanza racconta una storia che non va demonizzata. E così via. In altri termini la strada che sta seguendo Hamon in Francia per dare una collocazione al PS ormai (inesorabilmente?) cannibalizzato da Macron.
3. Ma anche “tutti insieme i diversamente statalisti” non funziona
Anche chi vuole andare oltre il recinto del PD ma portandosi dietro ben stretto il menù delle politiche dirigiste e stataliste ha il suo front runner. Calenda è stato molto chiaro su il Foglio: l’Unione e l’euro naturalmente non si toccano ma contro la paura servono più nazione e più stato. Uno stato forte che sia la fonte della garanzia per tutti i cittadini di poter capire cosa gli sta succedendo e di poter trovare la propria strada. Uno stato che protegge gli sconfitti e difende le imprese dall’apertura indiscriminata ai mercati internazionali, mettendo anche sotto controllo il gioco dell’economia finanziaria resa troppo libera dalla visione semplificata e ideologica della storia che la sinistra riformista ha fatto sua dopo l’89.
Un ritorno statocentrico insomma che forse non troverebbe posto neppure nel tutt’altro che liberista recente documento della Congregazione per la dottrina e la fede della Chiesa cattolica dedicato alle questioni economico-finanziarie internazionali. Insomma a statalismo (nazional populista) uno statalismo e mezzo. Per farlo, cioè per contrapporre statalismo riformista a nazional populismo, occorre andare oltre il PD e mettere in piedi una “alleanza repubblicana” che dica qualcosa di più del semplice no al sovranismo anarcoide del governo legastellato. Insomma un nazionalismo ben temperato dentro il quadro euro.
4. Riformisti ma nel PD? Abbiamo già dato
Se i primi due quadranti sono definiti nei confini e negli attori protagonisti, gli altri due hanno più di un problema di messa a fuoco. Non tanto a proposito dei confini quanto a proposito degli attori. Tanto per cominciare, andare oltre lo stato – rifuggendo dalla strategia dello statalismo riformista – ma restando dentro i confini del PD, cioè negando la prevalenza del nuovo allineamento post ideologico lungo l’asse apertura chiusura, vuol dire prima o poi fare i conti con l’eredità del PD renziano e gentiloniano.
Un partito annichilito, nel quale come Mauro Calise ha più volte sottolineato l’enfasi sul cambiamento necessario e ineluttabile della forma partito ha finito per coincidere con una “politica interna” del non partito, fatta di trasformismi e di strategie coalizionali di cortissimo respiro con i vecchi detentori del potere nei governi locali e regionali. Gli esempi dell’Umbria e della Toscana sono assai istruttivi da questo punto di vista. Tutti costoro, da Richetti a Giachetti al sindaco di Pesaro Matteo Ricci, rischiano di trovarsi in mano un partito ormai inutilizzabile.
5. Oltre il PD e oltre lo stato: ma servono gli alleati giusti
Oltre il PD e oltre lo stato: con questa doppia discontinuità si presentano gli attori dell’ultimo quadrante della nostra mappa. Non serve lo stato europeo né ha senso immaginare gli stati uniti d’Europa, serve continuare sulla strada della costruzione di un’Unione flessibile di stati, innovativa sotto il profilo istituzionale, dotata sì di maggiori strumenti di azione sul piano delle politiche economiche ma senza rigidità veterokeynesiane, in ragione della loro debole tenuta teorica non riscattata dai fallimenti del mercato ma soprattutto della loro impraticabilità politica, considerato il quadro delle possibili alleanze in sede di Unione.
Occorre guardare con realismo a chi ci sta, per cosa e entro quali limiti. E’ la dichiarazione di Meseberg: “Proponiamo di istituire un bilancio della Eurozona nel quadro dell’Unione europea per promuovere la competitività, la convergenza e la stabilizzazione nell’area dell’euro, a partire dal 2021. Le decisioni sul finanziamento dovrebbero tenere conto dei negoziati durante il prossimo quadro finanziario pluriennale. Le risorse verrebbero da contributi nazionali, allocazione delle entrate fiscali e risorse europee”.
Come si vede una proposta pesante di policy, non solo regole. Una proposta che guarda al mercato elettorale europeo spostando il frame imposto dal nazional populismo. Esiste infatti in Italia e negli altri stati dell’Unione un’opinione pubblica che sostiene l’Unione, è convintamente indisponibile ad avventure nazional populiste ma attende di essere rappresentata, attende un’offerta che ne raccolga e ne aggreghi gli interessi. Per rispondere a questa attesa e sostenere questo disegno serve un’aggregazione politica nuova, fabbricabile secondo diversi layout ma certamente non confinabile entro il recinto del PD e della sinistra del PSE.
Le elezioni europee sono una salutare scadenza esterna che impone l’elaborazione di una prima efficace risposta a questa esigenza: il nazional populismo si sta muovendo, anche con strategie configgenti – chi vuole lanciare un’opa sul PPE contro chi vuole sfidare il PPE – ma si sta muovendo. Il problema di questo quarto quadrante dunque non sono i confini: sono gli attori sulla scena. Chi rappresenta questa posizione? Quale leadership collettiva ma soprattutto personale ha la credibilità per avviare una strategia di consolidamento e di alleanze? Quali alleanze nazionali e sovranazionali? Il silenzio a fronte di queste domanda comincia ad essere imbarazzante. Senza leadership non c’è politcs. Senza politics non c’è policy.
Qui siamo. Come sempre nella storia politica il timing è quello che è: occorre cogliere le finestre di opportunità e non è possibile attendere i momenti propizi come se il timing fosse dettato dalle convenienze, le prudenze, le difficoltà di un singolo attore. In autunno una proposta deve essere in campo per dare volto al quadrante della doppia innovazione. Altrimenti resteranno in campo solo due statalismo, vecchio e nuovo. E sarà difficile sfidare i nazional populisti sul loro terreno.
Funzionario del Comune di Terni. Già assessore alla Cultura a Terni, è stato collaboratore a contratto del Censis e della cattedra di scienza della politica, Facoltà di scienze politiche della LUISS.