Cosa è successo all’elettorato del Pd veneto? Perché la sconfitta ci poteva stare, ma una sconfitta di queste dimensioni no. Tanto per chiarire ai non veneti. Il peggior risultato per il fronte riformista da quando esiste l’elezione diretta del presidente. Nel 1995 l’ex sindaco di Padova Bentsik prese il 32,3 (e già allora la giovane segretaria del Ppi veneto Rosy Bindi fece i suoi danni opponendosi alla candidatura di Tina Anselmi, che avrebbe con probabilità vinto cambiando la storia politica del veneto), nel 2000 Cacciari il 38,2%, nel 2005 l’imprenditore Massimo Carraro il 42,3% e nelle ultime elezioni il vituperato segretario degli artigiani veneti Bortolussi il 29%. Risultato considerato miserevole ma questa volta abbiamo dovuto registrare un 22,8% per la coalizione attorno ad Alessandra Moretti ed un 16,7% come voto al Pd.
Come si spiega? C’è stato qualche errore di impostazione di campagna elettorale. Intanto rinunciando alla politica e mettendosi interamente nelle mani della tecnicalità del consulente d’immagine. Una campagna troppo solitaria della candidata. Facile farla con una straripante personalità come Renzi, più difficile se rientriamo nella normalità. Povertà di proposte di contenuto suggestive per l’opinione pubblica.
Ma i motivi sono più strutturali e li riassumo così.
Da un lato c’è stato come nel resto dell’Italia uno sciopero del voto a sinistra. Solo che qui non c’è stata nessuna compensazione al centro. Lo spazio è stato interamente occupato da Zaia e in subordine da Tosi. Voti in libera uscita dati alle europee a Renzi sono rientrati nella casa naturale.
Si è scontato anche una opposizione evidentemente inefficace in Consiglio regionale in questi anni. A metà tra la tentazione consociativa ed una opposizione propagandistica. Se Zaia non avendo fatto niente prende così tanti voti è anche perché evidentemente non siamo riusciti giorno per giorno a costruire nell’opinione pubblica un giudizio su questo vuoto e la suggestione di una credibile alternativa.
Soprattutto non si è fatto nulla dopo il premio ricevuto alle europee (un eccezionale per le consuetudini venete 37,5%) per consolidare quel voto. Che richiedeva una straordinaria iniziativa politica. Invece nulla. Un immobilismo assoluto invece di lavorare sulla certamente transitoria apertura di credito, comprendendo che i veneti avrebbero voluto veder emergere la figura di un Renzi veneto, capace con idee chiare e determinazione di dare espressione al verbo del “cambiare verso” in Veneto. Non l’elaborazione di contenuti programmatici, non interlocuzioni di merito e di prospettiva con la rappresentanza degli interessi, non rapporti con il mondo della cultura. Una tardiva ed approssimativa individuazione del candidato presidente. Sembrava che il problema principale fosse quello di spartirsi in anticipo l’eredità del capitale creato da Renzi. Solo che facendo nulla l’eredità è evaporata.
Se questo è vero si pone per Renzi un problema generale che va oltre il Veneto. Perché pazienza dover accettare che in alcuni parti del territorio nazionale il partito locale resti in mano a vecchi gruppi dirigenti non convinti della novità renziana. Ci vuol tempo per cambiare. Ma dove come nel Veneto la guida del partito è affidata a realtà renziane ci si aspetta di vedere in che cosa consista il cambio di verso. Io ho visto molto “renzianismo” pochissima innovazione renziana: idee nuove, un approccio diverso, un arruolamento di intelligenze e competenze che pure ci sono per costruire l’innovazione. Si sono rottamate le persone (più per accordi di vertice che per voti popolari) ma non sì è rottamato il vecchio modo di fare politica. Nel mondo renziano tutto un dibattito autoreferenziale tra i renziani della prima ora e quelli della seconda, sui diritti di primogenitura ecc. Pensando che il “tocco d’oro” di Renzi sostituisse l’iniziativa politica nel territorio, la fantasia creativa dei veri riformisti e che tutto si riducesse a collocarsi nelle migliori posizioni rispetto all’entourage del premier. Poi la realtà arriva e provvede a dare la sveglia.
Di questo Renzi deve tener conto. Affidarsi a gruppi dirigenti territoriali solo per la caratteristica della fedeltà senza tener conto della capacità e dell’autorevolezza rischia la prossima volta di pagarlo lui in prima persona. Occorre rimediare perché non possiamo permettercelo.
Parlamentare dal 1996 al 2013, è stato il primo segretario regionale del Pd Veneto. Attualmente è presidente della fondazione Ruggero Menato. Collabora con Il Mattino di Padova, Il Gazzettino, il Corriere della Sera