di Gianluca Passarelli
«Dopo Venezia, Bologna è la più bella città d’Italia, questo spero sia noto». Pier Paolo Pasolini scriveva così della Dotta, ormai troppo grassa e sempre meno rossa città crocevia della via Emilia. Era il 1969.
Bologna torna centrale per la politica nazionale
Oggi Pasolini, ahimè, non c’è più. Per molti anni Bologna è stata ombelico della politica nazionale. Ora pare rischi di esserlo per la cucina, il turismo arraffone e i luoghi comuni. Erano gli anni rampanti, ricchi di idee, confronti e di peso specifico nazionale politico e istituzionale. Il professor Romano Prodi, la Commissione europea, l’Ulivo dell’intellettuale Arturo Parisi, la presidenza della Camera a impronta felsinea per due volte con Fini e la sua svolta conservatrice, oggi naufragata, e Casini. E molto altro, e altri.
Dopo un decennio di perifericità ritrovata, la città/regione “sazia e disperata” di Giacomo Biffi, senza troppe idee, certamente non dominanti, con manovre iper-localiste e sguardi cupi, disegni metropolitani e trame cittadine, sembrerebbe che viva una nuova centralità sia Bologna, ma anche l’Emilia-Romagna nel suo complesso.
Entrambe tornano ad essere centrali per due tipi di fattori, uno congiunturale e uno strutturale, parzialmente connessi. Gli indicatori economici, le prestazioni del welfare, le eccellenze industriali, la ricerca universitaria, la solidarietà civica e la cultura diffusa, il pragmatismo operoso. Elementi che in un contesto nazionale di precaria leadership politica, di debolezza economica e stanchezza culturale, nonché di imbarbarimento civico, rappresentano un faro, un traino per l’intero Stivale.
La funzione simbolica delle elezioni in Emilia Romagna
A questi assetti ormai strutturali si affiancano fattori congiunturali che rimandano sul proscenio l’intera regione sul piano sociale e su quello politico. Il battesimo della Piazza per il M5s nel 2007, il movimento politico delle c.d. “sardine”, l’avanzata leghista oltre il Po, la sfida lanciata dal sen. Salvini e persino la (meritata) nomina a Cardinale per M.M. Zuppi.
La contesa per la conquista elettorale dell’Emilia-Romagna dunque come cartina al tornasole, per alcuni baluardo contro presunte orde barbariche alle porte, per altri battaglia simbolica, ovvero mera tenzone locale. Di fatto, le elezioni del 26 gennaio prossimo hanno assunto, bon gré mal gré, una funzione e una dimensione simbolica evocativa sul cui altare sacrificare i destini nazionali.
Bonaccini è un leader
In questo contesto si aggiunge una sorpresa o, forse, meglio sarebbe dire una novità. Stefano Bonaccini, il presidente (non governatori per favore!) della regione che ha maturato, ha costruito, ha evidenziato doti da leader. Trattato da brutto anatroccolo, additato burocrate grigio di partito, infine nuova speranza della famiglia riformista emiliano-romagnola.
Ma se Bonaccini assurgerà a ruolo nazionale non dipenderà solo da elementi esogeni; egli ha dimostrato statura politica e coraggio, che evidentemente covavano nel corpo del leader ché, avrebbe detto il Manzoni, «il coraggio, uno non se lo può dare». Tutto ciò, non scordiamolo, nel contesto istituzionale delle elezioni regionali in cui dal 1995/1999 la partita si gioca sugli aspiranti presidenti molto più che sui partiti e sugli schieramenti. Che non sono neutri, ma possono fungere da gruppo di sostegno ai candidati. Soli, persino solitari all’uopo.
Una sfida per una nuova primavera politica
Le elezioni in Emilia-Romagna si svolgono dunque su una linea di doppia tensione: da un lato l’homo politicus Salvini che abilmente tenta di nazionalizzare la contesa. Consapevole della minore forza della candidata leghista, che pure sta conquistando galloni sul campo, tenta di indurre l’avversario a cedere all’arma bianca per uno scontro di civiltà, un referendum non sull’Emilia-Romagna ma su sé stesso, ossia Salvini. Dall’altro, Bonaccini, ben consigliato o forse più per istinto politico, che ara il terreno tra Piacenza e Rimini marcando i punti dell’azione di governo regionale. Lascia che i cittadini/elettori valutino le cose fatte, quelle da fare e le proposte. Rimanendo in casa e spingendo lo scontro, o meglio il confronto tra lui e Lucia Borgonzoni.
Ciò nonostante la partita sarà letta come un test nazionale. E tutto sarà nuovo, qualunque sia l’esito.
Di nuovo dunque, Emilia-Romagna e «Bologna ombelico di tutto», secondo Francesco Guccini, che “spinge a un singhiozzo e a un rutto”? Oppure a una nuova Primavera civile e politica.
(Già pubblicato sul Corriere della Sera – Bologna)
Full Professor | Ph.D. Comparative Politics – Sapienza Università – Dipartimento di Scienze Politiche. È ricercatore dell’Istituto Carlo Cattaneo e membro di Itanes. Si occupa di presidenti della Repubblica, partiti, sistemi elettorali, elezioni e comportamento di voto. È autore, tra l’altro, di La Lega di Salvini. Estrema destra di governo (2018); The Presidentialization of Political Parties (2015).