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Con Schlein regressione compiuta, una garanzia di stabilità per Meloni

Vittorio Ferla martedì 28 Febbraio 2023
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di Vittorio Ferla

 

A dispetto della convinzione della gran parte dei commentatori la vittoria di Elly Schlein alle primarie del Pd è tutt’altro che ‘clamorosa’. Rappresenta solo l’ultimo stadio – definitivo, salvo (in questo caso sì, ‘clamorose’) sorprese – della regressione del partito. L’origine di tutto è il rapporto con il riformismo (incarnato prima da Veltroni e poi da Renzi), da un lato, e con la ‘marea montante’ dei Cinquestelle, dall’altro.

Il riformismo – ovvero l’apertura della sinistra alle ragioni della libertà, del mercato, della modernità e dei nuovi ceti medi emergenti – non è mai stato digerito dalla mentalità utopistica e radicale del corpaccione del partito, innamorato della sua diversità berlingueriana e pasoliniana. Dopo il successo iniziale, Walter Veltroni, il segretario della vocazione maggioritaria e della competizione bipolare, protagonista della visionaria svolta del Lingotto, fu presto disarcionato e marginalizzato. Matteo Renzi, erede ideale di quell’orizzonte riformista, fu vissuto come un leader abusivo: approfittando della sconfitta del 2018, la ‘ditta’ lo spinse ad abbandonare non solo la segreteria, ma anche il partito.

La ‘marea montante’ dei Cinquestelle (non usiamo a caso quest’espressione maoista) è stata vissuta dagli epigoni del comunismo italiano come l’esilio forzato di un popolo – deluso dalla svolta neoliberista del Pd – che doveva essere riconquistato e riaccolto nella casa madre. Per fare questo, sarebbero stati necessari la ‘santa alleanza’ progressista con il M5s e il ‘ritorno alle origini’, con il recupero di una presunta identità di sinistra perduta, a partire dalla riproposizione di parole e ‘battaglie’ chiave: difesa dei poveri, lotta alle diseguaglianze, giustizia climatica, tutela del precariato, e via elencando.

Pur con tutte le differenze, su questa piattaforma si sono mossi sia Nicola Zingaretti che Enrico Letta. Quest’ultimo, travolto alle elezioni dalla vittoria della destra meloniana, ha imbastito da segretario dimissionario un surreale e grottesco processo costituente che, tanto per cambiare, aveva alla sua radice il solito obiettivo: espungere dal Pd ogni traccia dell’ispirazione libdem e far rientrare a casa gli scissionisti di sinistra. Per raggiungerlo bisognava fare due operazioni. Eliminare definitivamente il ‘renzismo’, vissuto da una parte della vecchia classe dirigente come una vera e propria ‘infezione’ ideologica. Cancellare anche le origini riformiste del Lingotto con la riscrittura del manifesto fondativo. Letta non ha avuto la forza e la spudoratezza necessaria per realizzare la seconda operazione. Molto più facile, invece, completare la prima, anche per l’assenza di un leader capace di difendere le ragioni del riformismo.

Così, i candidati in campo per le primarie – Bonaccini, Schlein, Cuperlo, De Micheli – avevano, nei fatti, caratteristiche molto simili. Il motivo è semplice: tutti hanno cercato di rivolgersi alla base del partito con l’obiettivo di rassicurarla sul fatto che, un minuto dopo le primarie, la sinistra avrebbe finalmente recuperato l’eredità perduta dopo anni di – presunte – deviazioni di percorso. Stefano Bonaccini ha cercato di incarnare quel minimo di indirizzo riformista che ancora esiste nel Pd. Lo ha fatto nell’unico modo che conosce: con lo stile di un funzionario di partito, ex comunista, emiliano. Ma la linea di amministrare con il buon senso l’esistente si è rivelata inevitabilmente troppo scolorita, insufficiente per attirare nuovi elettori al di là della base degli iscritti. Elly Schlein è stata capace, viceversa, di cavalcare l’onda e di incarnare lo spirito del tempo. In effetti, la giovane candidata ha saputo riportare alle urne delle primarie una buona parte di quella sinistra radicale che negli ultimi anni si era allontanata dal Pd, rifugiandosi nell’astensionismo, nel grillismo o nelle liste scissioniste minori. In questo senso, ha saputo sfruttare meglio l’occasione delle primarie, che servono proprio ad allargare la base elettorale del partito.

Stavolta però l’offerta dei candidati per le primarie era a tal punto circoscritta alla dimensione identitaria da lasciare completamente sguarnito il campo riformista. Gli elettori liberalprogressisti – che in passato hanno guardato con fiducia e speranza al Partito Democratico e che in occasione delle primarie si presentavano in massa al voto – questa volta non si sono sentiti minimamente interpellati da una competizione chiusa, completamente rivolta al proprio interno e alla ricomposizione del campo della sinistra tradizionale. Operazione legittima, certo, ma priva di fascino per un elettorato democratico che si sente alternativo alla Meloni, ma è poco interessato alla riconquista della purezza identitaria della vecchia sinistra.

Molti dirigenti democratici oggi gongolano festeggiando finalmente l’arrivo del ‘cambiamento’. Ma di cambiamento c’è ben poco. In primo luogo, perché praticamente tutte le vecchi correnti (tranne Base Riformista, da Orlando a Franceschini, da Zingaretti a Boccia, da Bettini a Provenzano) hanno sostenuto la Schlein, rinsaldando il tradizionale patto di sindacato sul partito. In secondo luogo, perché, a ben vedere, ciò che ritorna nel partito non è tanto il sol dell’avvenire, bensì il crepuscolo degli dei. Con Schlein alla segreteria, il millenarismo ecologico, la retorica delle diseguaglianze, la mistica del pauperismo, le barricate a difesa di scuola e sanità pubblica, il pacifismo arrivano per rimpiazzare, con nuovi nomi, la lotta di classe, la rivolta del proletariato, lo stato assistenziale, l’antiamericanismo e tutto il vecchio armamentario di certezze ideologiche che danno l’illusione di aver riconquistato l’identità. Il prezzo che si paga è quello di restare fuori dall’evoluzione del mondo reale e dalle nuove sfide della storia.

Se tutto questo è vero, Giorgia Meloni può dormire sonni tranquilli. A meno che non sia la sua stessa maggioranza a crearle dei problemi (cosa che non è affatto da escludere), la vittoria di Schlein – cioè la vittoria della sinistra che si accontenta di fare un’opposizione retorica piuttosto che ambire a una prospettiva di governo – è la migliore garanzia di lunga vita per il governo in carica. È realistico – come per esempio si augura Francesco Boccia – che i dem possano diventare il primo partito della sinistra alle elezioni europee: facile che l’elettorato grillino in fuga possa scegliere di ritornare al Pd, ritrovandovi un tasso di populismo accettabile. Assai improbabile, viceversa, che il populismo di sinistra emerso vincente dalle primarie del Pd, benché saldato con la pratica dorotea delle correnti, sia in grado di rappresentare una valida (per il paese) e attraente (per gli elettori) offerta di governo. Il caso britannico di Jeremy Corbyn può insegnarci qualcosa.

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